Indice delle lezioni

 

Io ch’ero fermo ad una corda appesa,
per bisogno, respirare ho dovuto
quell’ultimo fiato intriso
che tra quattro porte
era rimasto chiuso.

S’io potessi, ora che so,
dare un numero al peso della mia più grande colpa,
è solo saggiando
il libero arbitrio del malvagio,
o l’apatia dell’agiato,
o l’arroganza del superbo,
che avrei peso maggiore di sollievo,
facendo vero quel vorrei
che da sempre trastulla i miei giorni,
ponendo un fine
all’abituale infimo tormento
di questa morte che spezza il fermento.

Pietro Di Martino

Commento

Affinché la seguente spiegazione sia compresa bene, consiglio una cosa che sarebbe ovvia: leggerla mantenendo sotto gli occhi il testo della poesia. Potete farlo in diversi modi, per esempio aprendo un’altra finestra nel vostro schermo, su questo stesso sito, e affiancandola a questa, in modo da avere sotto gli occhi sia la poesia che questo commento.

Questa poesia contiene una grande complessità, è un concentrato di significati, ma merita di essere studiata perché è capace di rivelarsi arricchente, è un contributo al mondo affinché si cresca.

Vediamo di analizzarla un po’ in dettaglio per capirci qualcosa e non confonderci nella foresta degli echi che crea in noi.

Per orientarci dobbiamo prima individuare un nocciolo, un centro attorno a cui la poesia gravita. Non è poi così difficile trovarlo: c’è l’espressione di un desiderio che fa da scheletro a tutta la poesia:

S’io potessi … dare un numero

Questa è la spina dorsale della poesia: un desiderio espresso, soltanto espresso, che non ha una risposta. Come dire: “Quanto mi piacerebbe se potessi…”. Potessi che cosa? Dare un numero. Dare un numero significa poter quantificare, misurare, precisare, definire, dare un nome alle cose, poterle padroneggiare, poterle capire, poterle comprendere.

Per ora fermiamoci qui: il poeta manifesta un desiderio che non trova modo di realizzare: poter padroneggiare, comprendere, afferrare.

Adesso notiamo che altri termini sono legati a quest’idea del precisare, definire, afferrare: si parla due volte di peso: pesare significa proprio dare un numero, stabilire quanto una cosa vale, in base a quanto pesa. C’è anche il verbo saggiare che esprime la stessa cosa: saggiare significa pesare, soppesare, valutare. L’espressione “facendo vero” indica la stessa tendenza: far vera una cosa significa concretizzarla, renderla visibile, comprensibile, misurarla e mostrarne le dimensioni. Anche “ponendo un fine” indica il desiderio di giungere a qualcosa di stabile, sicuro, conclusivo, definito; quando si pesa un oggetto sulla bilancia si pone un fine, cioè si ha finalmente a disposizione una base per stabilire, ad esempio, a che prezzo venderlo. Porre un fine significa porre uno scopo e uno scopo è qualcosa che si presenta come preciso, definito, capace di dare orientamento.

A questo punto stiamo cominciando a capire che il poeta sente il bisogno di precisazione, definizione, concretizzazione. In questo senso la frase “facendo vero quel vorrei” esprime la stessa idea di “s’io potessi dare un numero“. Infatti “s’io potessi” equivale a “vorrei“, “dare un numero” equivale a “facendo vero“, cioè riuscire a precisare. “Facendo vero quel vorrei” significa “riuscendo a definire bene (= facendo vero) le mie aspirazioni profonde (= quel vorrei)”.

Ora possiamo procedere con un altro interrogativo: a un certo punto il poeta parla “della mia più grande colpa“. Colpa di che cosa? Egli stesso non lo sa, infatti dice proprio che vorrebbe dare un numero al peso di questa colpa, cioè vorrebbe capirla, precisarla, stabilire di cosa si tratta.

A questo punto mi permetto di intervenire io provando a leggere dietro le parole: il poeta non sembra esserne consapevole, ma sembra che, senza accorgersene, abbia in realtà un sospetto molto nascosto su cosa sia questa colpa. Questa colpa può essere individuata proprio nel voler dare un numero, voler definire, pesare, comprendere, afferrare. È questa la colpa dell’Occidente, il quale ha oppresso interi popoli con la propria superbia, basata sulla pretesa di aver capito, di essere intelligente, di essere superiore agli altri popoli. Il poeta forse sospetta che la colpa sia questa, ma non giunge a diventarne consapevole. Egli è distolto da questa consapevolezza per il fatto che pesare, definire, dare un numero, è anche un nostro diritto, sono nostri bisogni per vivere: non si può vivere se non si arriva mai a precisare niente. Ecco la confusione: per vivere è necessario afferrare, dare un numero, pesare, ma questo pesare è anche origine di superbia, oppressione, arroganza, orgoglio di aver capito. Ecco perché il poeta non riesce ad aver chiaro in cosa consiste la sua colpa: perché si tratta di un atto distruttivo che però è anche un diritto e una necessità umana.

Ora che abbiamo guadagnato le coordinate essenziali in cui muoverci possiamo percorrere più agevolmente il resto della poesia.

Che cos’è questo essere fermo ad una corda appesa nel primo verso? La corda appesa può rappresentare un punto di ancoraggio, qualcosa a cui aggrapparsi, sostenersi, ma il poeta ormai ha capito che aggrapparsi a qualsiasi cosa significa anche rendere quella cosa causa della nostra morte. Ci si aggrappa ad una corda per sfuggire alla sofferenza, ma la vita ormai ci ha mostrato abbondantemente che qualsiasi corda a cui ci aggrappiamo è alla fine morte; ci sembra un salvagente per fuggire al dolore, ma quel salvagente si rivela presto impossibilità di dare spazio a tutti i nostri movimenti. Si tratta di una contraddizione, un inganno della vita: a volte fuggiamo dalla sofferenza, ma fuggiamo correndo incontro alla morte. Si tratta della stessa contraddizione espressa più avanti: “tra quattro porte ero rimasto chiuso“: attenzione: non dice “chiuso tra quattro mura”, che sarebbe stato più logico. Le porte dovrebbero servire proprio a non rimanere chiusi, ma il poeta smaschera questa falsità: sono proprio le porte a chiuderci, cosi come è la corda ad ucciderci, quella corda che ci è sembrata una via d’uscita, così come sembrano essere le porte.

Adesso possiamo comprendere il senso di questa contraddizione: si tratta del pesare, dare un numero, di cui abbiamo parlato sopra: dare un numero dà la sensazione di padroneggiare, ma la storia mondiale ha dimostrato che dare un numero significa uccidere, far asfissiare, opprimere, così come fa una corda appesa che sembrerebbe consentirci una fuga.

Ora possiamo comprendere ciò che il poeta dice più sotto: la sua colpa è consistita in desiderio di giustizia, che però egli ormai ha capito che si tramuta in colpevolizzazione. È quello che fanno in continuazione tutti i tribunali: i tribunali esistono per fare giustizia, ma in realtà compiono continua ingiustizia in ogni loro atto perché non fanno altro che colpevolizzare. Ecco un’altra forma dell’ambiguità in cui il poeta si sente aggrovigliato: la giustizia sarebbe un diritto, ma in realtà uccide, perché fa considerare le persone dal punto di vista della colpa. Ecco quindi la sua tentazione di entrare nell’animo delle persone, tra cui anche il proprio stesso animo, a vedere dove sta il libero arbitrio, dove sta l’apatia, dove sta l’arroganza, in una parola: dove sta la colpa. Ma ormai egli ha capito che questa ricerca è essa stessa colpevole, anzi, per meglio dire, colpevolizzante.

Tutta la poesia esprime dunque questo sentimento del poeta di sentirsi aggrovigliato, intricato, imbrogliato, inviluppato. Questo corrisponde al sentimento espresso nei primi versi: egli si sente asfissiare, vorrebbe sciogliere questi nodi e sente che un respiro c’è stato. Ciò che però ha respirato non è il puro dell’aria aperta; ciò che ha respirato è il proprio fiato, per niente puro, un fiato “intriso”; intriso di cosa? Intriso di sé stesso. Anche qui c’è un’ambiguità che lascia vedere una luce, ma anche la nasconde: il poeta ormai ha capito che ciò che ci sembra aria aperta, aria fresca del mattino, non è altro che l’aver dato un numero, aver pesato, aver dominato, e quindi non ha niente di fresco, è soltanto il piacere di esserci affermati. Allora egli sospetta che la vera apertura, la vera freschezza, sta nel respirare il proprio fiato, cioè conoscere sé stesso, esplorare le proprie profondità: è lì che sta la vera apertura, piuttosto che nell’illusione di uscire fuori a respirare aria fresca. Ma è solo un suo sospetto: infatti ha respirato il proprio fiato non per scelta, ma perché ha dovuto farlo: “respirare ho dovuto“.

A questo punto possiamo andare all’altra espressione che sembrerebbe contrastare col resto: a un certo punto egli dice “ora che so“. Ma che cosa sa, visto che il suo è tutto un sentirsi aggrovigliato, sentirsi nell’impossibilità, o semmai tentazione, di dare un numero, nell’impossibilità di far vero il vorrei? Non può trattarsi di un sapere intellettuale, non può essere il sapere di chi è riuscito a dare un numero. Perciò il suo sapere può essere solo un sapere di esperienza che va oltre ciò che si può dire a numeri, oltre ciò che si può esprimere a parole. Il suo sapere è l’esperienza di sé stesso, indicata dall’aver respirato il proprio fiato. L’esperienza di sé stesso non è l’esperienza di chi è riuscito a crearsi delle idee esatte e precise: quello è il sapere del numero. L’esperienza di sé stesso è invece quella che si esprime nella globalità di tutta la poesia, cioè nello scoprirsi poeta, che in quanto tale è come essersi sentito attraversato dalla musa, dall’arte, da questo spirito che si muove dentro di lui e l’ha spinto a scrivere questi versi.

A questo punto succede una cosa curiosa, che contribuisce al sentirsi imbrogliato del poeta: proprio l’esperienza di sé stesso lo conduce a voler pesare, voler numerare, afferrare, fare giustizia. Insomma, egli intravede la strada, la esprime sotto forma di vorrei, ma ne ha paura, per quello che sopra abbiamo detto riguardo all’arroganza occidentale. Ne ha paura perché teme di cadere di nuovo nell’errore dell’universalizzare, imporre il sapere del numero che opprime. Come fare allora? Lo si fa cercando di non dimenticare che siamo esseri particolari e che quindi ogni peso a cui diamo un numero è pur sempre opinabile, è legato alla persona. Ciò che uccide, opprime, è il dire che la matematica non è un’opinione. Il poeta invece suggerisce che anche la matematica non è altro che un respirare il proprio fiato intriso, non è un essere usciti all’aria aperta. Allora sì che il numerare acquista diritto di cittadinanza, in quanto umile, consapevole del proprio particolarismo.

Questo particolarismo è vita, è il fermento di cui il poeta parla alla fine, che si oppone al “fermo” espresso invece nel primo verso: la poesia si muove in questa tensione tra fermo e fermento, cioè tra illusioni dell’occidente arrogante e vita autentica del singolo che legge il proprio respiro.

Dopo quanto detto, non c’è quasi bisogno di spiegare il resto: il fatto che il tormento venga detto “infimo“, il vorrei considerato un trastullo: sono anch’essi segni della tensione in cui il poeta si vede tirato, da una parte e dall’altra.

È interessante che la poesia non ha una conclusione, non ha una risposta ai propri problemi, e proprio questo può considerarsi un messaggio fondamentale di essa: bisogna fare attenzione alle conclusioni, alle risposte, perché nascondono la tentazione dell’arroganza. Nel profondo dello spirito si rivela migliore andare per domande, desideri e aspirazioni, come fa questa poesia, piuttosto che per risposte, conclusioni, numeri.

Salve a tutti.

Siamo arrivati al post che contiene la poesia di Pietro Di Martino che porta come titolo “Vorrei”. Nella poesia ho evidenziato che ci sono dei riferimenti alla razionalità, il numero, il peso, tutte cose che possiamo riassumere con la parola “oggettività”.

Ora, l’oggettività, per chi ha seguito più o meno il cammino, si può considerare, in una maniera, diciamo, drastica, come “il male” addirittura, cioè ciò che si impone e a cui io non riesco a contrapporre la mia soggettività. Per fare un esempio, se mi sta cadendo una pietra sulla testa, quella è un’oggettività che si impone: io non ho la certezza che quello non possa essere un sogno e, nonostante questo fatto non riesca a imporre una sua certezza, nonostante questo si impone, cioè potrebbe anche essere un sogno, ma intanto io mi devo togliere di mezzo, altrimenti quella pietra mi cadrà sulla testa. Questa è la violenza, l’imposizione dell’oggettività.

Ora, l’oggettività ha questa caratteristica, quindi, di costringerci a reagire con altra oggettività, cioè prendere provvedimenti che siano altrettanto oggettivi. Nel caso della pietra, di cui ho fatto l’esempio, il provvedimento oggettivo è quello ovviamente di togliermi di mezzo: intanto devo fare questo. Il problema, in questa situazione, è che l’oggettività, costringendomi a prendere provvedimenti oggettivi, mi conduce a ridurmi a una macchina, a un meccanismo, un dover ubbidire per forza, e soprattutto mi conduce a dimenticare la mia soggettività, il mio essere, la mia spiritualità.

Ora, per tentare di compensare questo problema, questa difficoltà, cosa si può fare? Lungo il cammino già fatto di spiritualità ho evidenziato più o meno tre vie, che adesso cerco di mettere a fuoco in maniera più esplicita, più schematica.

La prima via è quella del dialogo tra soggettività e oggettività. Cioè dire, l’oggettività non può essere eliminata, però, per lo meno, posso farla dialogare con la mia soggettività. Un esempio di forme di questo dialogo è, per esempio, il linguaggio teologico. Nel linguaggio teologico si ragiona, si riflette, però si ascolta in grande misura anche la propria fede, la propria esperienza spirituale, quindi c’è un dialogo tra oggettività e soggettività. Oppure il linguaggio esegetico, o possiamo dire anche spirituale.

Una seconda maniera di tentare di reagire all’oggettività che si impone, che mi costringe a pensare solo alle cose oggettive, dimenticando la mia soggettività, è quella di tentare di reagire direttamente con la soggettività, almeno quando c’è questa possibilità, e quindi cercando di contrapporre non riflessioni, cercare di vedere “vediamo cosa posso fare”, ma piuttosto contrapporre direttamente l’attenzione alla soggettività. Un esempio di questo potrebbe essere riscontrato nell’episodio di Gesù e l’adultera. Quando la volevano lapidare gli chiesero “Che dobbiamo fare?” e lui all’inizio non risponde niente, si mette a scrivere per terra, come dire “Io non vi contrappongo una riflessione, un ragionamento, ma un’esperienza spirituale che riguarda il mio essere. Voi mi avete portato un’esperienza, io vi contrappongo un’altra esperienza”. Oppure può essere il semplice mettersi a meditare il contrapporre esperienza a esperienza.

Una terza via, che si può considerare eventualmente una sottosezione della seconda, è l’attenzione all’io, vissuto soprattutto nella consapevolezza della propria unicità, nel senso che io percepisco che questo io, questo io specifico, ce l’ho solo io e come me lo percepisco io non posso farlo percepire a nessun altro. Quindi si rivela come un’esperienza unica, esclusiva e, in questa unicità, addirittura incomunicabile, nella misura in cui non c’è niente di comune a cui far riferimento per poterlo far capire agli altri così come lo percepisco io.

Alcune annotazioni riguardo a questi tre punti.

Nel complesso si potrebbe dire che c’è nello sfondo il problema del dito e della luna, cioè il dito che indica e a volte noi, invece di guardare la luna, che viene indicata dal dito, ci mettiamo a guardare il dito e perdiamo di vista la luna. La stessa questione a volte viene chiamata questione del distinguere tra la mappa e il territorio. È lo stesso problema, cioè il territorio è il territorio, ma la mappa è solo un pezzo di carta, quindi attenzione a quando guardo la mappa: non sto vedendo la realtà, ma una rappresentazione della realtà. Oppure si potrebbe dire, in maniera più tecnica, il rapporto tra significante e significato. Il significante in questo caso è, per esempio, la parola, il significato è ciò che mi fa pensare la parola.

Ora, su questo possiamo però porre delle osservazioni critiche. Possiamo osservare che, per certi versi, nel rapporto che abbiamo detto tra il dito e la luna, in realtà anche la luna è dito, perché, quando io dico che sto pensando alla luna, in realtà sto pensando pur sempre la mia idea della luna e quindi sono pur sempre a contatto diretto con i miei pensieri, non in contatto diretto con la luna. Dice “Ma io sto pensando alla luna”; sì, ma è pur sempre la tua idea della luna, quindi non sei a contatto con la luna, ma con la tua idea della luna. In questo senso si potrebbe dire che anche la luna rimane un significante. Non possiamo mai rivendicare la pretesa di dire “Ho raggiunto il contatto diretto con l’oggetto”. Chiunque può sempre dirmi “No, con ciò che tu pensi dell’oggetto, non con l’oggetto in maniera diretta”.

Si potrebbe notare anche l’aspetto opposto. Cioè dire, anche il dito è una luna, nel senso che anche il dito è già un’esperienza, anche il significante è già un’esperienza, un contatto con un’esperienza. Quindi si potrebbe dire, tra dito e luna, mappa e territorio, significante e significato, che in realtà sono tutti significanti e tutti significati, perché sono tutti esperienze - anche il significante è un’esperienza - e tutti significanti, cioè anche il significato non è l’oggetto, ma rimane pur sempre una mia idea.

In questo senso allora rimane, come opportunità, di cercare di sfruttarli in questa consapevolezza che sono plurimi, ognuno ha più valori, più possibilità di uso. In questo senso ho accennato a questa questione nel post “Differenza tra strutture e significati”, in cui dicevo che i significati possono essere considerati mega-strutture, ma pur sempre strutture. Cioè il significato non è l’oggetto, ma pur sempre una struttura che rimanda all’oggetto e, anche quando dico “oggetto”, anche quello è un significante, non posso dire, dicendo “oggetto”, “sono andato direttamente all’oggetto”.

Ora, questo può valere, può essere osservato, almeno questo sforzo di andare, per quanto è possibile, più vicino che è possibile, all’oggetto, tutto questo può essere osservato come sforzo riguardo all’arte. Cioè, quando penso all’arte, posso pensare all’artista, posso pensare all’oggetto raffigurato, ma, in particolare, posso tener presente che quell’opera d’arte mira a farmi pensare a me stesso, alla mia esperienza interiore, e quindi è come se l’artista mi dicesse “Io lo so che non posso farti entrare dentro la mia esperienza e so anche che ciò che conta non è il quadro, ciò che conta è ciò che tu puoi riscontrare in te stesso” e allora sì che l’opera d’arte diventa un rinvio a qualcosa di particolarmente oggettivo, cioè l’oggettività dell’esperienza mia interiore. In questo senso “oggettività” viene a coincidere con “soggettività”, cioè l’opera d’arte cerca di rinviarmi alla più vera e più autentica soggettività. Come dire, non guardare il quadro, smetti di guardare il quadro, smetti di guardare all’artista, pensa a ciò che quell’esperienza sta suscitando dentro di te. Questo vale, quindi, anche, per esempio, per la musica. Sì, posso guardare il compositore, l’esecutore, lo strumento, la melodia, eccetera, ma ultimamente posso pensare come se la musica mi dicesse “Adesso dimentica tutto e vai a pensare a ciò che la musica ha suscitato in te e che c’era già prima che tu ascoltassi quel brano, ma quella musica ha cercato di indirizzarti a quell’esperienza che già esiste in te”.

Ora, questo può valere anche per l’esperienza del silenzio. Cioè dire, nel silenzio si può fare attenzione a non lasciarsi prendere dal riflettere, dall’essere assillati dai problemi, dover trovare le soluzioni. Questo è ciò che ci aliena, ci fa diventare oggetti, macchine che ubbidiscono alla ricerca di soluzioni oggettive, e allora nel silenzio posso tentare di reagire a questo problema, cercando di lasciar perdere ogni riflettere e cercando di seguire la coscienza della mia interiorità, quel silenzio stesso che c’è, senza nessun contenuto, niente, il silenzio così com’è, così come si presenta a me.

Si può tener presente anche che tutte queste cose che sto dicendo, a loro volta, possono rischiare di continuare a rinviare comunque a dei contenuti fatti di parole, cosìcché il miglior promemoria, il miglior rinvio all’esperienza, rimane non un appunto che mi posso prendere, una spiegazione, eccetera, ma il miglior rinvio all’esperienza rimane alla fin fine l’esperienza stessa. Cioè, per ricordarmi di fare esperienza, il miglior promemoria non è scrivermelo, il miglior promemoria è cercare di andarci direttamente all’esperienza. Come si vede, è una difficoltà perché c’è sempre il rischio di non andare mai all’esperienza, ma di andare a qualcosa che in realtà indica verso di essa e quindi con il rischio che, più che indicare verso di essa, distrae. A questo proposito può essere valido il punto terzo, quando dicevo dell’io. Cioè, proprio perché l’io non riusciamo a comunicarlo in tutto ciò che ha di unico in ciascuno di noi, allora proprio quello si può considerare il massimo dell’oggettività del soggetto, cioè il massimo dell’esperienza diretta, il non lasciarsi prendere più dalle parole, proprio perché quell’io, come esperienza unica, non riusciamo a dirlo a parole. E allora, se nel silenzio sto pensando, meditando, su quell’esperienza, c’è molta più probabilità che davvero sto andando alla vera esperienza, che va oltre il dito, la mappa, il significante, ma va direttamente al vissuto. Così può venire a succedere che la migliore risposta al rischio di diventare vittime dell’oggettività può essere questa: il coltivare la coscienza del nostro io come esperienza unica, che ciascuno di noi non riesce a dire all’altro, proprio perché è unica e quindi non ci sono le parole comuni per poterla dire, le parole condivise.

Auguri a tutti di scoprire questo grande universo, a volte l’ho chiamato un microuniverso, ma si potrebbe pensare che il microuniverso è quello che si guarda col telescopio e il grande universo è proprio l’io che possiamo esplorare, la spiritualità che ognuno di noi può esplorare in sé e questo può valere come migliore risposta al mondo che tenta di alienarci, al male costituito dall’oggettività. Auguri a tutti di buon cammino e arrivederci ai prossimi approfondimenti, alle prossime esperienze che sono riflessioni.