Indice delle lezioni

 

Tra un Sole e una Luna,
è un’arte pensare
quanto viziosa sia
quell’ambiguità fra me e io,
covata nel surreale
inganno di un’esistenza
lisata a stimare
boriosi cannibali di vite altrui.

Tra mille Soli e mille Lune,
è un’arte pensare
che libera
l’anima sarà
da ogni vizio,
inganno o ambiguità,
quando perso avrà il brio
per l’atra boriosità.

Che angoscia quest’arte,
se pensieri e castelli di carte
danno forma a un mare
dove chi pensa può annegare.

Pietro Di Martino

Commento

In questa poesia c’è una meditazione sul rapporto con sé stessi e sul rapporto con gli altri. Il primo è segnato dalle parole

fra me e io

il secondo da

cannibali di vite altrui

che fa anche da ponte alla molteplicità del verso successivo

mille Soli e mille Lune.

In questo senso possiamo dedurre che il sole e la luna simboleggiano l’io e il me: il me è l’io reso oggetto, oggetto di riflessione, così come la luna riflette, è oggetto di riflessione della luce proveniente dal sole. Di conseguenza, i mille soli e le mille lune simboleggiano la molteplicità degli io e dei me della società umana di tutto il pianeta.

Dunque, nel suo esordio

Tra un Sole e una Luna

l’autore presenta sé stesso in riflessione riguardo al suo io:

Tra un Sole e una Luna

è in questa poesia l’esatto equivalente, in ordine invertito, di ciò che viene detto tre righe dopo con le parole

fra me e io.

Tutte e tre le strofe sono caratterizzate dal riferimento al pensare come arte. Già questa dualità va considerata con vigilanza: c’è molta differenza infatti tra privilegiare la semantica del pensare e privilegiare quella dell’arte: nel primo caso ci proiettiamo nel mondo della mentalità, la cerebralità, mentre nel secondo veniamo orientati alla pratica, all’esperienza vissuta. Dunque, cosa vuol dire il poeta quando dice che pensare è un’arte? Vuole esaltare la grandezza della mente umana, oppure vuole metterci in guardia dal rischio di porre in atto il pensare senza farlo essere arte, quindi facendolo rimanere nell’aleatorio, nel fumoso? Nell’affacciarsi di questo sospetto sta il senso centrale della poesia, che troveremo definito più compiutamente nell’ultima strofa.

In cosa consiste l’attuazione del pensare come arte, quindi come vita, come concretezza, piuttosto che come fumo? Consiste in un’azione critica: consiste nell’accorgersi di un vizio:

quanto viziosa sia

Qual è questo vizio? È l’ambiguità cattiva, nascosta dietro il riflettere sulla natura dell’io, oggettivata nel momento in cui lo chiamiamo “me”. Ma cosa ci può essere di cattivo, di ambiguo, nel semplice considerare il nostro essere io? C’è una falsità, un inganno, una mancanza di aderenza alla realtà, anzi, di più, una pretesa di porsi al di sopra della realtà: surreale significa, nel contesto particolare di questa poesia, “al di sopra del reale”, “in posizione di dominio sulla realtà”. Ecco cos’è il me: pretesa di dominare l’essere dell’io, attraverso i concetti che riguardo ad esso ci costruiamo. Questo porre il nostro io di fronte ai nostri occhi, chiamandolo “me”, è uno sdoppiamento arbitrario. Insomma, quando ci guardiamo allo specchio e diciamo “Quello sono io”, stiamo commettendo un atto di cattiveria, di superbia, perché ci stiamo illudendo di aver compreso cos’è il nostro io, siamo fieri di aver capito che quella è l’immagine di noi stessi, dimenticando che in quel momento è l’io ad essere specchio dello specchio, cioè siamo ultimamente noi a scegliere che senso dare all’immagine che lo specchio ci sta restituendo e dunque si tratta ultimamente di un senso relativo, soggettivo, limitato, deformato dalla nostra mentalità.
Lo sdoppiamento dell’io, che avviene nel momento in cui pensiamo di mettercelo davanti e renderlo oggetto di riflessione, chiamandolo “me”, è lisi, scissione, rottura dell’esistenza, inquinamento della sua unità, quindi inganno pronto a diventare superbia, boria.
In questo nostro riflettere davanti allo specchio pensiamo di poter riconoscere la boriosità dei cannibali, che sono sempre gli altri e mai noi stessi, e dimentichiamo che borioso, superbo cannibale, è ognuno di noi, nel momento in cui davanti allo specchio dice “Quello sono io”, perché dimentichiamo che “chi sono io” non deve dircelo lo specchio, devono dircelo gli altri. Far parlare lo specchio significa ingannare e ingannarsi perché ci fa dimenticare che quando parla lo specchio siamo in realtà sempre noi a parlare, siamo ultimamente noi a stabilire il senso di ciò che lo specchio sta dicendo.

In tutto questo allora tentiamo di fare un passo avanti, proviamo a farci dire dagli altri chi siamo noi e così veniamo a trovarci nella seconda strofa. La relazione con gli altri ci apre gli occhi sull’inganno di cui abbiamo detto sopra, smaschera la nostra boriosità, rispetto al momento precedente, in cui pensavamo che boriosi fossero solo gli altri. Ci fa prendere coscienza dell’incoscienza in cui ci trovavamo, un’incoscienza talmente deviante da farci scambiare la boria per brio, insomma l’essere cannibali viene presentato, incredibilmente, sfacciatamente, come dimostrazione del nostro essere buongustai: se io uccido è perché sono bravo, se uccidi tu è perché sei cattivo.
Se nella prima strofa l’arte consisteva nel rendersi consapevole dell’ambiguità dell’io che si autoguarda, si fa il selfie, pensando di aver individuato un “me”, in questa seconda strofa l’arte consiste in una speranza

che libera
l’anima sarà

Quando si realizzerà questa speranza? Ognuno l’immagina a suo modo, quel che conta è che si tratta di un’arte, che include in sé stessa la ricerca di una moralità, lo sforzo di prendere atto del nostro essere boriosi cannibali.

Ed eccoci all’ultima strofa,

Che angoscia quest’arte

che sembra una manifestazione di malinconia, tristezza, pessimismo, ma lascia sospettare che invece si tratti di un avvertimento: quest’arte è angoscia se …, lasciando intendere che, se non sarà praticata in questo modo, non sarà angoscia. Quest’arte è angoscia se i pensieri si fanno castelli e pretendono di essere forma. Questa fu la pretesa di Aristotele, pretesa di aver identificato nella forma l’essere di ogni cosa, l’essenza, la sostanza, una pretesa che tuttora imprigiona tutto il pensiero occidentale nella metafisica, nel realismo. Castelli, forma in quest’ultima strofa sono termini che indicano ordine, schematismo, inquadramento, dogmi, verità prestabilite: così è, così è sempre stato, così dev’essere, sempre, per sempre. Questo rende l’arte angoscia, la trasforma in un mare in cui chi pensa annega senza accorgersi del mare in cui sta annegando, perché vi sta dentro fino al collo e oltre il collo. Allora si affaccia qui implicitamente la proposta positiva: il pensare può essere un’arte, a patto che non dia fiducia allo specchio, perché lo specchio siamo pur sempre noi che lo guardiamo e lo interpretiamo; è arte a patto che coltivi la speranza in una libertà futura, a patto che questa speranza non diventi un castello, perché tutti i castelli sono di carta e quando crollano sono come un mare che ci avvolge e ci fa annegare.
Quest’ultimo pensiero non può non farci pensare a un altro annegare in un altro mare, un annegare che invece è umile, che in realtà è contenitore e sorgente di profonda vitalità, com’è mirabilmente espresso da Leopardi nella poesia L’infinito:

tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Insomma, il destino è sempre un annegare, ma c’è annegare e annegare: c’è l’annegare del superbo sommerso dal crollo del suo castello di carte e c’è l’annegare di Gesù, o di Socrate, o di Falcone, sommersi da una morte che viene sconfitta, perché è destinata a suscitare accrescimento di vita.

Vale la pena infine evidenziare alcune assonanze e allitterazioni che abbelliscono i contenuti già avvincenti di questa poesia: alcuni versi sembrano avere un accenno di rima, il che si pone come eleganza moderna, a metà tra un poetare tradizionale con rime perfette e un poetare avveniristico e sperimentale. Abbiamo così il ripetersi del dittongo a fine verso

… viziosa sia
… fra me e io

le rime

… quest’arte
… castelli di carte

…forma a un mare
…può annegare.

Atra“, riferito alla boriosità, si presenta come il lato oscuro di “arte“, “brio” come il lato falso e ipocrita di “boriosità“.

Salve a tutti.

Con questo video siamo a una poesia di Pietro Di Martino che ha come titolo “Un mare”. In questa poesia Di Martino dice due volte “è un’arte pensare”. Si può intendere in diversi modi questa espressione. In particolare, si può intendere come un avvisare, come un mettere in guardia, cioè dire: attenzione, il pensare, affinché sia fruttuoso, deve essere un’arte, deve essere consapevole che si tratta di un’arte, altrimenti diventa un pensiero solo quasi di matematica, il tipico ragionamento della logica, che si illude, perché anche la matematica è arte e quindi, anche quando pensiamo di ragionare, anche lì bisogna ricordarsi che siamo sempre arte, perché interviene comunque il nostro essere soggettivo. In questo senso si può anche tenere presente che, probabilmente, la caduta delle ideologie, la sfiducia nel pensare perché tutto va in crisi, tutto è criticabile, si può attribuire anche a questo, cioè a un modo di pensare che ha dimenticato di essere arte e quindi non è riuscito più a riscuotere fiducia, perché è risultato ipocrita, perché ha tentato di nascondere a sé stesso il suo essere arte, il suo essere soggettività, con la pretesa invece di dire delle cose certe, sicure, chiare, matematiche, razionali, precise.

Ora, tenendo presente che quindi il pensiero è anche arte, quando diciamo “arte”, però, non dobbiamo pensare soltanto alle opere d’arte in quanto opere d’arte, come può essere la Gioconda di Leonardo, la Pietà di Michelangelo. Cioè dire, in un contesto di spiritualità, arte è qualcosa che coinvolge l’esistenza intera, il senso del vivere, e quindi non per il puro gusto di produrre o di fruire di un’opera d’arte che ha una sua bellezza, ma per vivere la propria esistenza nel mondo. In questo senso viene ad esserci uno scambio di aiuto nell’interpretarsi, cioè dire la vita spirituale mi guida a interpretare meglio le opere d’arte, a vederle esse non soltanto come opere di bellezza, ma anche come opere del camminare, come opere di spiritualità, che investono l’intera esistenza, l’intera vita. In questo senso, allora, se guardo la Gioconda di Leonardo, posso anche pensare che lì Leonardo ha messo la sua spiritualità, il suo senso dell’esistenza, magari inconsapevolmente. Cioè, è un modo di guardare le opere d’arte, un modo specifico che le guarda come opere della spiritualità. Da questo punto di vista è opportuno anche notare che ogni opera d’arte, quale più quale meno, ma in qualche modo ogni opera d’arte, si può considerare che ha questa caratteristica, cioè un tentativo di uscire dalle regole, di ridefinire che cos’è l’arte. Magari ci accorgiamo di meno di questo con le opere d’arte classiche, che chiamiamo appunto classiche, cioè rientranti in certi canoni abbastanza definibili, mentre le opere più contemporanee dimostrano il loro ribellarsi ad ogni regola, il loro voler uscire fuori dai confini dell’opera d’arte. Ma in realtà anche nelle opere d’arte classiche si può individuare questo, anche esse possono essere considerate in questo modo, cioè come tentativo creativo a tutti gli effetti, cioè tentativo di creare anche il significato di che cos’è arte, piuttosto che attenersi a un significato già precostituito. Ora, in tutto questo contesto c’è anche il problema che non tutta l’esistenza è arte, non tutto il mondo è arte, non tutta la vita è arte e, in relazione a ciò che ho detto nei post e video precedenti, tener presente questo, cioè che la spiritualità significa anche arte, il pensare è un’arte, questo può significare anche un provare a perdonare la non artisticità di certi contesti di vita. Questo praticamente è quello che nella Bibbia, nell’Antico Testamento, ma anche del Nuovo, viene chiamato col simbolo del deserto. Il deserto nella vita che è morte, assenza di spiritualità, assenza di contenuti. Ora, si può tener presente questo: quando la vita è morte, è assenza di contenuti, io posso provare a perdonarla continuando a introdurre in essa la mia arte, i miei contenuti, la mia soggettività creativa. Questo si può fare anzitutto recependo. Cioè, un deserto, in realtà, è un silenzio che è capace di toccare il mio intimo e quindi già posso viverlo così. Ma anche attivamente, come dicevo, immettendo nel deserto la propria fisionomia, che è un’opera d’arte. Questo si può collegare anche a quello che ho detto altre volte, cioè il morire camminando. Anche nella morte: se io la vivo camminando, significa che la sto vivendo continuando a immettere la mia fisionomia artistica in essa. In questo senso possiamo tener presente che non esiste, in realtà, il morire in astratto, ma ogni morire ha una sua specificità esclusiva, una sua unicità. Esistono soltanto infiniti modi di morire e quindi io posso considerare che nell’universo io ho questa chiamata: far esistere il mio modo personalissimo, la mia fisionomia tipica del mio morire camminando e del mio vivere camminando. Questo diventa un portare, in realtà, vita, lì dove altrimenti ci sarebbe soltanto deserto e morte. Diventa questo un creare fisionomia. Cioè, nel momento in cui io immetto la mia fisionomia nel morire e vivere di questo mondo, in realtà sto continuando a creare la mia fisionomia, sto contribuendo anche a creare la fisionomia di questo mondo. Così mi collego anche all’altro post sulla non universalità dell’universo. Cioè, alla fin fine ci ritroviamo col fatto che la vita sono le fisionomie, le particolarità, i modi particolari che ognuno di noi manifesta, di morire camminando e vivere camminando. In questo senso abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, perché io ho bisogno di non solo immettere la mia fisionomia, ma anche arricchirmi del vivere e morire fisionomico degli altri.

Auguro quindi a tutti di sapere scoprire la propria fisionomia, saperla valorizzare, fare lo stesso con la fisionomia degli altri, e rendere in questo modo il mondo sempre più ricco spiritualmente, in maniera tale che perfino il morire diventa un continuare ad arricchire il mondo attraverso il nostro modo di farlo. Arrivederci a tutti alle prossime riflessioni.