Mi sembra che finora nessuno, né scienziato, né filosofo, sia riuscito a spiegare come mai il nostro universo risulti fatto interamente di disuguaglianze, asimmetrie, squilibri, differenziazioni.
Di solito, quando andiamo all’indietro alla ricerca delle cause del mondo presente, ci ritroviamo con uno schema che va dal semplice al complesso. Ad esempio, si parte da due cellule speciali che s’incontrano, cioè uno spermatozoo e un ovulo, e si viene a formare col tempo un organismo complicatissimo e ricchissimo degli aspetti più diversi. Oppure si parte da una situazione di concentrazione, quella cioè immaginata come big-bang, e si viene a formare un universo complicatissimo. Se usiamo questo criterio, viene fuori che all’origine di tutto dovrebbe esserci qualcosa di ultra semplice, infinitamente semplice, del tutto unitario, simmetrico, indifferenziato, equilibrato. Ma se quest’origine era così, come può dal simmetrico essere venuta fuori tutta l’asimmetria dell’universo che conosciamo?
A questo punto mi trovo indotto a pensare, criticamente, che la nostra esperienza ci fa osservare esclusivamente oggetti asimmetrici; il perfettamente simmetrico esiste solo nelle teorie della nostra mente. È come l’essere, inteso in senso statico: esso esiste solo nella nostra mente, perché l’esperienza ci fa osservare esclusivamente oggetti in divenire.
In questo senso, così come tutto viene a risultare in divenire, tutto viene anche a risultare disuguale, asimmetrico, imperfetto; in una parola direi fisionomico, cioè nessuno al mondo ha mai osservato alcunché che non possieda una fisionomia tipica di oggetto particolare, piuttosto che universale.
Ne consegue che l’universo va concepito come oggetto particolare, con una sua fisionomia specifica: esso non ha niente di universale.
Da ciò consegue che non esistono leggi fisiche generali, cioè valide indipendentemente dagli oggetti particolari a cui si applicano. Viene da sospettare che ogni verificarsi di ciò che riteniamo legge fisica universale sia percepito tale da noi solo perché non riusciamo a misurarne le minuzie che la rendono esclusiva. Prendiamo ad esempio la forza di gravità. Due pietre cadono obbedendo alla stessa legge fisica. Ma questo è solo ciò che i nostri imprecisi strumenti riescono a verificare. Io ho il sospetto che esista qualche minuzia che fa sì che quelle due pietre non stiano obbedendo alla gravità alla stessa maniera.
A questo punto sarebbe facile far riferimento alla relatività: tutto avviene in maniera diversificata perché tutto è relativo alle speciali singole situazioni. Questo modo di intendere la relatività presuppone però comunque un terzo riferimento unificante. Ad esempio, se un chilo di piombo sulla luna pesa venti grammi, è comunque possibile costruire una bilancia che tenga conto delle due diverse situazioni, in maniera che venga fuori un fattore unitario, per cui il peso sulla terra, una volta calcolate le dovute equivalenze, può essere dimostrato avere una corrispondenza fissa con quello sulla luna. In questo senso qualsiasi relatività non è poi davvero molto relativa: essa alla fine non è altro che un’equivalenza, la quale è composta comunque di grandezze non relative. Infatti nella relatività di Einstein la velocità della luce non è relativa.
In relazione a ciò che ho detto dall’inizio, io ho il sospetto che tutto sia relativo davvero e non alla maniera di Einstein. Davvero relativo significa che, se avessimo la possibilità di compiere osservazioni abbastanza precise, scopriremmo che in ogni fenomeno una legge fisica si realizza relativamente a quello specifico evento, quindi in maniera unica ed esclusiva, talmente unica ed esclusiva che in realtà la formulazione di una legge fisica è possibile solo grazie al fatto che ci permettiamo l’approssimazione.
Se ci riflettiamo, in effetti un sacco di cose che diciamo e pensiamo, forse tutte, sono possibili soltanto perché ricorriamo all’approssimazione. Per esempio, ci è possibile dire che ore sono solo grazie all’approssimazione. L’approssimazione è la grande invenzione del cervello, non solo umano, che consente agli organismi di destreggiarsi in mezzo alle difficoltà dell’esistenza e così padroneggiare molte situazioni. Questo padroneggiare ci fa sentire talmente padroni da farci dimenticare l’approssimazione stessa.
Comunque, è solo un sospetto, un dubbio, e penso che tale sia destinato a rimanere. Infatti, se le nostre idee, almeno così come il nostro cervello è andato strutturandosi lungo la sua storia biologico-culturale, sono possibili solo grazie all’approssimazione, ne consegue che non ci sarà mai possibile avere un’idea non approssimativa della relatività relativissima, più relativa di quella di Einstein, di ciò che sperimentiamo. Questo viene a significare che il dubbio, più che essere un punto interrogativo, può essere anche considerato uno strumento attivo di conoscenza, essendo l’unica via per poter pensare certe cose. A somiglianza di sant’Agostino riguardo al tempo, verrebbe da dire: fin quando ne dubito sento di averlo capito; appena mi sembra di averne capito qualcosa, mi rendo conto che mi sfugge.
Da ciò consegue anche che l’universo è creazione continua. Si spiegherebbe anche come mai ognuno di noi non possa fare a meno di sentire il proprio io come unico, esclusivo, incomunicabile nella sua esclusività: infatti, considerando gli altri possiamo accomunarli attraverso l’approssimazione, ma il nostro io non può essere accomunato perché la sua concidenza con noi che lo pensiamo ci rende ultimamente impossibile l’individuazione di comunanze con l’io degli altri: l’io degli altri non coincide con noi che lo pensiamo e quindi ci risulterà sempre, inevitabilmente, ultimamente irriconducibile al nostro, per quanto approssimativi possiamo cercare di essere nel tentativo di individuare somiglianze.
Possiamo ancora aggiungere, come ulteriore approfondimento, che l’essere non esiste se pensato con l’articolo. Esso esiste solo come questa coincidenza spazio-tempo asimmetrica, unica, irripetibile, singolare, senza altro con cui poterla confrontare, senza regole se non quelle al suo interno. Troviamo difficoltà a capire l’asimmetria perché la mentalità greca ci ha abituato a procedere per astrazioni; ma astrarre significa togliere, chiudere, selezionare, escludere. Chiederci come mai l’universo esiste, come mai non sia simmetrico, significa chiederci come mai l’universo non faccia di una sua parte (la nostra idea di astratto, di universale) la norma di riferimento unica e assoluta; è come chiederci come mai noi non facciamo di un piede, o di un’unghia, la norma di riferimento della nostra esistenza.
Riassunto del video
La critica del concetto di universalità consente di trovare la soluzione al problema della teodicea. In questo modo veniamo introdotti a riconsiderare sia il nostro concetto di “Dio”, sia quello di “persona”.
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