Indice delle lezioni

 

Le esperienze di spiritualità che ho indicato nelle lezioni precedenti, ad esempio l’esperienza di ascolto di una parola, possono essere considerate esperienze di nutrimento. Pensare alla spiritualità come nutrimento significa considerarla dal punto di vista di certi nostri bisogni, come il bisogno di sostegno, oppure di orientamento, o di motivazione.
In questo contesto mi sento un po’ allergico però alla considerazione del nutrimento come fonte di energia: è facile riscontrare questa visione in quelle che considero false, sedicenti spiritualità, deformazioni della spiritualità, che fanno riferimento ad energie da risvegliare, energie positive ed energie negative, energie nascoste che circolano del mondo e che è possibile captare sintonizzandosi opportunamente con le loro onde misteriose, magari attraverso oggetti che possiedono particolari poteri, oppure attraverso l’astrologia. Sono contrario a ciò, tra l’altro, perché ricerca di energia significa spesso perdita di vista della ricerca dei motivi per cui quest’energia manca. Ad esempio, se un’automobile ha difficoltà a muoversi perché ha un freno bloccato, non avrà molto senso montarvi un motore mille volte più potente, oppure metterci una benzina con una potenza esplosiva superiore: sarà molto meglio sbloccare il freno. In un contesto umano, se una persona non riesce a portare a termine un lavoro perché è oggetto di oppressioni o di bullismo, sarà fuorviante somministrarle alimenti super energetici o sostanze in grado di moltiplicare la forza muscolare: sarà meglio risolvere il problema che sta alla radice. È questo il motivo per cui preferisco parlare di motivazioni, o della loro carenza, piuttosto che di energie.
È necessario anche tener presente che la spiritualità, come ogni altra attività umana, non è la salvezza, non è la soluzione dei problemi, la ricetta pronta per tutte le occasioni. Nonostante ciò, essa rimane comunque una facoltà umana altissima, in grado di introdurre completezza ed equilibrio nella nostra esistenza.
A questo punto nasce una domanda critica: può la crescita nutrirsi di crescita, può il camminare nutrirsi di camminare? Purtroppo, come ho appena detto, l’infallibità non esiste, non esiste qualcosa in grado di essere infallibilmente cibo, sostegno, orientamento. Possiamo però comunque lavorare per tirare fuori almeno il possibile, il massimo, il meglio. Da questo punto di vista possiamo osservare che effettivamente la strada può essere nutrimento per la strada; oso dire la cosa in maniera ancora più paradossale e provocatoria: la fame può essere cibo. So che a questo punto molti si saranno ribellati, soprattutto perché un’idea del genere si presta ad opprimere il prossimo nelle maniere più odiose e subdole. A parte questa giusta ribellione, però, non sarà male osservare che, se un cibo servisse a far sparire per sempre in noi la sensazione della fame, moriremmo presto per denutrizione, perché non sentiremmo più il bisogno di nutrirci. Un cibo deve servire anche a mantenere in funzione quei meccanismi del nostro corpo che all’occorrenza ci faranno sentire affamati. In questo senso viene a risultare molto criticabile l’affermazione di Gesù alla samaritana, Gv 4,14, in cui egli si vantò di poter dare un’acqua in grado di eliminare per sempre la sete. Quelle parole per me sono valide solo se s’intende con l’acqua la ricerca e con la sete da far sparire quel tipo di aspettative, desideri, angosce, che inducono a perdere di vista il valore del cercare, per orientare interamente verso mete che facciano terminare la ricerca.
In sintesi, ciò che ho tentato di comunicare in quest’articolo è che la spiritualità, se intesa come nutrimento, va intesa soprattutto come atto del mangiare e del cercare, piuttosto che come cibo-oggetto, cibo statico su cui approdare definitivamente per non navigare mai più. In questo senso viene a risultare opportuno parlare, sullo stile di san Francesco, di “sorella insoddisfazione”, “sorella fame”, senza le quali moriremmo presto per mancanza di nutrizione. In altre parole, ciò che davvero ci nutre non è propriamente il cibo, l’oggetto materiale: l’oggetto materiale è solo il supporto di base affinché possa attuarsi quello che davvero conta, cioè l’azione, il gesto, l’atto, la storicità in divenire, che è l’azione del mangiare, l’atto del masticare, il movimento del nutrirsi, o del cercare cibo. Ciò che conta di più non è trasferire l’oggetto cibo dentro il nostro stomaco, ma consentire il movimento. Il movimento sarebbe sì impossibile senza cibo materiale, ma un cibo che non originasse movimento sarebbe del tutto inutile, privo di senso e di motivazione. Il cibo materiale è il mezzo, il fine è muoversi, cercare, ma per molti versi il muoversi stesso è il mezzo primario al fine di muoversi, perché ogni mezzo ci fa rischiare di dimenticare il fine.

Salve a tutti. Questo video ha come titolo “La spiritualità come nutrimento”. In aggiunta a ciò che ho già scritto nel post, possiamo osservare che quello che noi chiamiamo nutrimento, ciò che di spiritualità noi possiamo considerare nutrimento, può essere anche considerato come qualcosa che noi stessi possiamo creare. Cioè dire, non solo io, nella pratica spirituale, posso scegliere alcune cose da utilizzare come nutrimento, ad esempio la parola, o anche il silenzio, oppure, nella religione Cattolica, Gesù stesso viene considerato un nutrimento, basti pensare alla Messa, l’Eucaristia, ma, in questo senso, noi stessi possiamo produrre nutrimento e, direi anche, siamo chiamati responsabilmente a produrre nutrimento. Basta soltanto non tirarsi indietro, sentirsi incoraggiati a farlo, prendere consapevolezza che abbiamo questa capacità. Ora, riguardo a questo, una cosa che potrebbe distoglierci, scoraggiarci, dal creare noi stessi nutrimento, potrebbe essere il confronto con quelli che già lo fanno, cioè con persone, per esempio gli artisti, che producono opere molto importanti, in grado di nutrire lo spirito. Si potrebbe pensare, in una maniera molto semplicistica: ma, se tutti nel mondo diventassimo artisti, produttori di grandi capolavori, sarebbero davvero dei capolavori, miliardi di capolavori, tutti con la stessa importanza di un Picasso, un Giotto? Ora, su questo potrà essere bene chiarire che non ci sono limiti, cioè il limite può essere nella nostra mente, perché non siamo in grado di usufruire di tutto il gran numero di capolavori disponibili nel mondo, ma questo non significa che sia bene astenersi dal creare capolavori perché già ce ne sono troppi. Al bene non c’è limite e quindi, se siamo in tanti, tanto meglio. Non ci potrà essere qualcuno che emerge, nella misura in cui siamo in tanti, ma anche questo potrebbe essere considerato un punto a favore, piuttosto che l’idea che debba esserci un artista, pochi artisti, che sanno fare i capolavori, con tutti gli altri in soggezione, in timore di non poter reggere il confronto con questi personaggi. In questo senso, in realtà, sono proprio gli artisti stessi ad incoraggiare tutti ad esprimersi, specialmente, direi, gli artisti più moderni, gli artisti più astratti. Cioè, se un artista arriva a fare uno scarabocchio e presentarlo come opera d’arte, questo, piuttosto che crearmi soggezione e dire come polemica “Anch’io sapevo fare lo scarabocchio”, l’artista può dirmi “Ma proprio questo io volevo dirti: anche tu sei un artista, fai uscire l’artista che è in te, io te lo suggerisco attraverso uno scarabocchio, ma chissà quante altre cose potrai scoprire, quante altre capacità produttive, capacità di creare cibo, tu potrai scoprire nella tua persona”. Dopo, quindi, avere sfatato questo mito che gli artisti debbano essere pochi, che i capolavori debbano essere pochi, ci può essere un altro mito da sfatare, cioè dire il creare ed essere cibo per noi stessi. Cioè dire, solitamente, l’autocontemplarsi, l’autonutrirsi, l’autocompiacersi, per tanti versi giustamente, viene riconosciuto come una pratica narcisista, una pratica portata all’egoismo, al rivolgere poca attenzione agli altri, al prossimo, e quindi sarebbe come un vizio il guardarsi allo specchio, il contemplare i propri pensieri, compiacersi delle proprie capacità, ma questo non deve portare al problema opposto, cioè trascurare completamente le possibilità che abbiamo e soprattutto trascurare la possibilità di confrontarci con noi stessi, esaminare con noi stessi, in un dialogo, ciò che portiamo dentro. Ora, da questo punto di vista, non è un male al cento per cento quello di ripercorrere i propri pensieri per esaminarli, valutarli, apprezzarli e soprattutto per condurli a crescita. Cioè dire, l’autocompiacimento, nella misura in cui non è un fermarsi, ma piuttosto un voler crescere, e un voler migliorare poi anche l’attenzione verso gli altri, non è detto che sia un vizio, una gabbia entro cui la persona stretta di mente, la persona meschina, intenda a chiudersi. In realtà, la nostra spontaneità, il nostro io, la nostra psiche, fa già questo, un nutrirsi anche di sé stessa. Da questo punto di vista si potrebbe anche apprezzare la prospettiva dei profeti, presente nella Bibbia. Cioè dire, il profeta cosa fa? Medita, riflette, vive un’esperienza spirituale e certe cose che intuisce le percepisce come rivelazione: “Dio mi ha detto questo”. Ma anche il non credente può mettersi in una prospettiva del genere, come dire “Il camminare mi ha detto questo, la mia spiritualità mi ha rivelato questo, mi ha rivelato questa possibilità di crescere”, e in questo senso, abituandoci quindi ad apprezzare le nostre capacità produttive e apprezzare i nostri stessi pensieri, la nostra stessa spiritualità, senza troppa paura di narcisismo, in questo modo noi possiamo diventare più capaci di essere cibo per gli altri ed essere quindi occasione di crescita, di arricchimento, di miglioramento anche per gli altri, oltre che per noi stessi.

Auguri quindi a tutti di apprezzare la spiritualità come cibo, che non soltanto possiamo recepire dal mondo, dagli altri, ma che noi stessi possiamo creare per noi stessi e per gli altri. Arrivederci e buona crescita a tutti.