A questo punto del cammino trovo fruttuoso raccogliere diversi elementi sparsi negli articoli precedenti, esplicitarne alcune conseguenze e provare a formare una nuova sintesi.
Nella lezione La nostra percezione di essere io, concludo dicendo che l’io può essere convenientemente considerato come un’esperienza spirituale; credo che si possa spingere oltre questo linguaggio e dire che l’io è spiritualità, io sono spiritualità, ciò che essenzialmente vale di me è l’esperienza spirituale che di questo “me” riesco a portare avanti. Ne consegue quanto detto nella lezione Minacce alla spiritualità: quest’esperienza così importante rischia in continuazione di vanificarsi, aggredita da tutto ciò che dentro e fuori di me congiura e milita contro di essa, non esclusa la tentazione di assolutizzarla, privandola di quanto di diverso ha bisogno per arricchirsi degli equilibri più fruttuosi. Prima, dunque, di preoccuparmi di far esistere la spiritualità in questo mondo, dovrò farla esistere in me, per non rischiare di parlare di qualcosa che io per primo non conosco. Per questo l’ovvia pratica necessaria è il silenzio, comunque esso venga organizzato e gestito.
La messa in guardia contro il mondo delle distrazioni e il richiamo al silenzio inducono a pensare ad uno stile di eremitaggio, che però oggi non può più ispirarsi ad immagini pacifiche da monastero o da eremo. Deve trattarsi necessariamente di un eremitaggio sofferto, una croce, un vivere mai contento di sé, un eremitaggio che non si rassegnerà mai a non cercare l’altro, perché la coscienza dell’altro, per quanto possa essere viziata, pur con tutto il suo essere male, il suo essere spiritualità universale e non umana, rimane comunque necessaria affinché la mia spiritualità non si riduca ad autocompiacimento.
In questo senso il bisogno di esistere nella coscienza di altri va sfruttato e gestito come occasione di arricchimento che è tale anche in mezzo ai micidiali squilibri altrui. L’altro mi uccide in continuazione, ma senza il suo uccidermi, o se comunque reagisco al suo uccidermi senza un camminare critico e autocritico, io posso solo esistere come essere vuoto di spiritualità. Ciò viene ad essere una risposta a Sartre che, come ho ricordato nel mio libro Camminare a pag. 90, diceva che l’inferno sono gli altri.
Con altre parole, possiamo dedurre che, una volta che in questo mondo esiste la micidialità dell’esistenza degli altri, Gesù non avrebbe potuto far esistere nel mondo alcuna spiritualità meritevole di considerazione, se non affrontando di petto questa micidialità. Qui emerge un senso della vicenda di Gesù non tanto come vittima, ma come un io-spiritualità che non avrebbe potuto realizzarsi senza la spiritualità degli altri, anche se questi altri lo uccisero.
In altre parole, la morte di Gesù non è stata l’ultima parola, ma rimane solo parte di un dialogo, sia pur drammatico, in cui la non colpevolezza di coloro che lo uccisero attende ancora altre risposte; ci chiediamo, cioè, non solo come mai Gesù dovette morire, ma anche come mai i suoi uccisori non poterono sfuggire alla loro stessa decisione di ucciderlo. Ciò significa prendere sul serio l’esclamazione “perdonali perché non sanno quello che fanno” di Luca 23,34, un perdono che non è risolutivo del problema.
S’intende che un discorso di questo tipo è per persone avanzate in un cammino, persone che hanno avuto modo di sperimentare la grandezza, la consistenza critica e la capacità attrattiva di un’esperienza di spiritualità umana. In questo senso non condivido l’impostazione di Lévinas, che intende invece l’altro in una prospettiva che mi sembra troppo ottimistica, tutto sommato buonistica, non mettendone in dovuto risalto la micidialità, a cui d’altra parte gli uccisori stessi non possono sottrarsi e che il dramma di Gesù ha messo a nudo.
La conclusione pratica di questo discorso viene ad essere quanto detto alla fine della lezione Spiritualità come non violenza: nel corso del nostro essere morenti (il che significa che il nostro camminare viene in continuazione ucciso, ma siamo noi stessi ad andare in cerca dei nostri uccisori) la nostra risposta dovrà essere quella di continuare, in qualsiasi modo, a favorire e far esistere il camminare, insieme alla spiritualità che attraverso di esso si fa strada in noi. In questo senso assume importanza l’immagine di Gesù che si reca al Calvario per essere crocifisso: egli porta la croce, ma è importante che la porta camminando, mostrando, tra l’altro, che lo standard di riferimento del camminare è zoppicare, cadere, riprendersi, fallire, fare brutta figura con gli altri e con sé stessi.
Riassunto del video
Non esistono atteggiamenti definitivi per la morte. Morire camminando significa anche esplorare sempre nuovi atteggiamenti. Una grande strumento di cammino è la parola, che però subisce sfiducia per le complicazioni introdotte da filosofia e religioni. È il caso di coltivare anche una vera e propria spiritualità della parola. In questo senso è importante curarsi di morire come viventi e non come persone già morte da molto tempo. La meta, come ha avuto modo di dire Jean Louis Ska in un’intervista, è la strada. Possiamo adoperarci affinché nella strada ci siano anche dolcezze, momenti di conforto, che corrispondono alla provvisoria tenda, in cui Israele era solito sostare.
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