Tra tutte le incertezze, i dubbi e le autocritiche in cui la filosofia di oggi ci conduce, una volta adottato un metodo che, piuttosto che per ragionamenti o affermazioni di verità, procede per narrazioni, esperienze ed umiltà, ci veniamo a riconoscere immersi in una verità di fondo; dopo tutto quanto detto finora, s’intende che non si tratta di una verità metafisica, ma di un’esperienza. Questa verità è: siamo esseri umani. Da qui possiamo esplorare le conseguenze più fruttuose. Tra di esse, mi sembra che ce ne siano due di particolare rilevanza. Di una, l’amore, ho già parlato nei due post precedenti: come esseri umani troviamo spontaneo vedere nell’amore il massimo dell’attuazione del nostro essere; non entro nella questione su cosa sia l’amore, avendola già toccata negli stessi post. L’altra conseguenza del nostro essere umani che trovo rilevante è la giustizia: come esseri umani troviamo dentro di noi un’esigenza istintiva di giustizia; ci sdegniamo e soffriamo se vediamo prevalere nella vita chi non ha fatto nulla per meritarlo, quando invece chi ha lavorato e dato molto si ritrova sfortunato e sfavorito. Anche riguardo alla giustizia possiamo notare che non si tratta di un valore oggettivo: in natura potremmo trovare diversi esempi di ingiustizia, per la quale gli esseri interessati certamente non si pongono problemi esistenziali; ma basta anche osservare il semplice fatto che tutto è criticabile, specialmente ogni concetto metafisico di verità e così anche di giustizia.
Se poniamo in collegamento amore e giustizia, possiamo dedurre che per noi esseri umani può essere sentito persino doveroso sacrificare ad essi altre componenti dell’esistenza, tra cui la vita stessa. Per l’amore è giusto sacrificare qualsiasi cosa.
Questo sentimento, oltre al bisogno di una definizione teorica dell’amore, di cui ci siamo già occupati, comporta anche un problema di definizione pratica. Si tratta di un problema che coinvolge non solo il nostro istinto a formarci concetti teorici, ma anche le scelte pratiche che ci troviamo a dover fare. Qualche esempio chiarirà l’idea. Se un coniuge s’innamora di un’altra persona, non gli sarà tanto facile stabilire se l’amore vero è quello che ha vissuto nel suo matrimonio oppure è la nuova fiamma che si è accesa; se un genitore si trova a dover dirimere un contrasto tra suo figlio e un estraneo, non gli sarà tanto facile stabilire in che misura amare anche l’estraneo, eventualmente a scapito del trattamento di favore da riservare al figlio.
In ogni caso, ciò che qui trovo più fruttuoso approfondire non è il discernimento per queste situazioni problematiche. Trovo più efficace proseguire quanto detto prima, cioè, quali che siano le situazioni create, come esseri umani possiamo sentire come criterio dirimente quello di seguire in ogni caso l’amore, dovunque esso venga individuato. In questo senso si capisce che seguire l’amore può comportare a volte la separazione di una coppia, difendere un estraneo a sfavore del proprio figlio, oppure il contrario. L’orizzonte a cui voglio arrivare è che seguire l’amore può essere spesso un criterio destabilizzante per la vita sociale o privata, oppure per certa spiritualità a cui la vita ci fa abituare passivamente; d’altra parte, sappiamo tutti che, a causa di ciò, in certi casi taluni hanno preferito sacrificare l’amore alla stabilità; basta pensare, come esempio, ai matrimoni di interesse.
Proseguendo nel discorso, arriviamo a sospettare che seguire l’amore possa indurre anche all’omicidio, alla vendetta. In questo momento mi viene in mente la Carmen di Bizet, oppure i kamikaze, che, per ciò che essi ritengono amore incondizionato per la loro religione o la loro patria, sono disposti ad uccidere.
Non m’interessa in questo contesto individuare criteri di moralità, anche perché non esistono, per lo meno come verità oggettive. Piuttosto, trovo fruttuoso osservare che tutto questo è spiritualità. Evidentemente la spiritualità vissuta in questi contesti non fa individuare alcun criterio di soluzione dei problemi, ma in realtà non è che esistano altri criteri che ne siano capaci. Se dunque è impossibile trovare soluzioni dirimenti, e quindi anche inutile impegnarsi nella ricerca di esse, possiamo sospettare che adottare un criterio di esperienza, di narrazione, di spiritualità, possa rivelarsi una metodologia per lo meno arricchente, fruttuosa, pur non offrendo soluzioni che, d’altra parte, neanche altre vie sanno indicare.
Si tratta di una situazione simile all’inevitabilità umana del morire: quando s’intuisce che non ci sono più soluzioni, tanto vale occuparsi di come morire, piuttosto che continuare a sprecare tempo nella ricerca di soluzioni inesistenti per rimanere in vita. Questa sembra essere stata la via adottata da Gesù. In questo senso, lavorare nel proprio spirito per un camminare e crescere nell’esperienza dell’amore e della giustizia può farci vivere, e se inevitabile anche morire, se non altro mentre stiamo percorrendo e sperimentando le vie di crescita più arricchenti che ci è stato dato di individuare. Questa è spiritualità. In realtà non è escluso che essa sia anche in grado di far sorgere soluzioni per i problemi, nate dallo sperimentare narrativo, che significa anche condivisione e scambio delle esperienze.
Riassunto del video
Ciò che conta non è fare il giusto o l’ingiusto, essere giusti o ingiusti, ma che ci sia un camminare, qualunque cosa si abbia fatto.
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