Un’interpretazione interessante della spiritualità è vederla come non violenza. Per giungere a questa visione possiamo servirci di un’immagine efficace per affrontare il tema della sofferenza, che è quella della spina. La spina si presenta come un semplice oggetto, non come una persona responsabile, accusabile; un oggetto piccolo, ben inquadrabile. Una spina crea dolore in continuazione e quindi si presenta con una caratteristica molto simile a quella di un concetto, quasi a poter dire che una spina è essa stessa dolore, sofferenza. Da questo punto di vista possiamo dire che la morte heideggeriana è come una spina nel fianco, che inficia l’intera nostra esistenza, in ogni suo attimo; si potrebbe paragonare anche al mal di denti, o a qualsiasi altro male in grado di pervadere il nostro sentire in ogni momento, senza lasciar libera la nostra mente neanche per un attimo. Un’altra caratteristica frequente della spina è l’impossibilità di potercene liberare: spesso accade che si spezzi dentro la carne, è piccola, invisibile, rimane in profondità e non c’è verso di toglierla. Nella seconda lettera ai Corinzi 12,7 san Paolo parla di una spina nella sua carne di cui non si sa bene il significato. Non cadremo ovviamente nella tentazione, in cui tra l’altro Paolo stesso cadde nell’episodio del monumento al dio ignoto (Atti 17,22-31), di approfittare della mancanza di chiarezza per introdurre ciò che interessa a noi, insomma pescare nel torbido; ci è bastato citarlo per associazione d’idee.
Che cosa si può fare con una spina, una volta che si è conficcata nella nostra pelle e non c’è verso di liberarcene? Non ci rimane altra scelta che assaporare, volenti o nolenti, tutto il dolore, la sofferenza che ci causa. Possiamo tentare di distrarci, ma sarebbe inevitabile sospettare che in questo modo permetteremmo alla spina di determinare i nostri comportamenti, causando proprio il nostro tentativo di distrarci. D’altra parte, con o senza spina, non esiste dimostrazione della nostra libertà e a questo possiamo ovviare tentando di vivere ospitando un po’ di senso critico. Il senso critico ci induce a non reagire troppo passivamente distraendoci e da qui consegue che tenteremo anche di affrontare il problema in maniere più dirette. D’altra parte, oggi non possiamo considerare maniera diretta la ricerca ossessiva delle cause e delle soluzioni, avendo già osservato che proprio la critica sull’oppio dei popoli può essere tacciata di essere essa stessa oppio dei popoli. Tutto questo ci conduce a un’espressione importante con cui Gesù esprime nel vangelo il modo da lui scelto – o subìto – di vivere la sofferenza: egli parla, per esempio nel Getsemani, Luca 22,42, di un calice da bere. Può essere fruttuoso pensare un senso essenziale del bere il calice come equivalente di vivere una spiritualità, soffrire con consapevolezza, seguendo di petto, con la mente, il dolore, l’amarezza, il soffrire, cercando di portare avanti una vita di non violenza, che significa senza male. Bere il calice significherebbe quindi non reagire col male non solo contro il prossimo, ma, più in generale, contro ogni meccanismo oggettivo, contro la spiritualità universale. D’altra parte, bisogna però considerare che non ci può essere violenza se non c’è coinvolgimento di persone. Un minimo di una persona però è sempre coinvolta ed è il sofferente. Viene a risultare che si vive violenza quando c’è un tentativo di bloccare o ostacolare il camminare altrui o proprio. Dunque, un aspetto fondamentale della spiritualità, in relazione al male, viene ad essere la non violenza. In termini più positivi, si parlerebbe di vivere favorendo sempre il camminare, il crescere, far sì di non ritrovarci mai a bloccarlo o ostacolarlo, anzitutto in noi stessi.
Questo discorso può essere accostato all’altra lezione su spiritualità e pace, con la differenza che lì la pace è ipotizzata come conseguenza indiretta della spiritualità, mentre qui credo di fare un passo avanti di chiarificazione, considerandola come ricerca diretta, mirata a salvaguardare il camminare, piuttosto che il distruggere.
Riassunto del video
Non violenza significa anche favorire la diversità, il che conduce al relativismo. Se l’ossimoro “dittatura del relativismo” può essere chiarito con la filosofia, rimane la diffidenza del massificato, che teme che il filosofo lo voglia ingannare giocando con le parole. Non c’è una salvezza a ciò, ma si può lo stesso lavorare per la coesistenza di più modi non solo di pensare, ma anche di vivere: spiritualità è anche politica.
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