Una conseguenza fruttuosa del pensare particolaristico riguarda la ricerca di senso, di cui ho già parlato nella lezione Narrare, non sperare. In quel post ho anche parlato di fisionomia. Qui possiamo aggiungere che abbiamo una ragione fondamentale per cui il senso della vita non può essere trovato e non va neanche cercato: cercare il senso della vita con mentalità greca viene a significare cercare un senso che si sottragga al tempo e allo spazio; ma, dopo che Heidegger ci ha mostrato che non esistono cose indipendenti da tempo e spazio, comprendiamo che un senso inteso in questa maniera non sarà mai trovato perché non esiste, non è mai esistito, è solo frutto di una nostra deformazione mentale portata ad universalizzare. Dunque, se può essere bene andare in cerca di un senso della vita, dovremo intenderlo come qualcosa di eternamente provvisorio, negato per definizione all’universalità e alla definitività.
Una volta richiamata la fisionomicità, o l’ “esserci”, di qualsiasi senso, possiamo applicare con frutto questa mentalità al problema della concezione dell’io. Me ne sono già occupato sia in Camminare, sia nella lezione La nostra percezione di essere io. Ora possiamo osservare che, quando ci chiediamo come mai “io sono io”, come mai “a me è toccato questo io”, in effetti stiamo distinguendo un io inteso come indipendente dal tempo e un io situato. Infatti, nel momento in cui mi chiedo “come mai a me è toccato quest’io che ora si trova in questo corpo”, quel “me” sottintende una concezione di me stesso astratta dal corpo e quindi dal tempo e dallo spazio, un me stesso che ad un certo punto si è venuto a trovare immerso in un tempo e uno spazio, cioè in un corpo, in un “io” locale, temporale. Ciò significa che l’interrogativo non è altro che ancora un prodotto della mentalità greca, che ha modellato anche il nostro modo di autopercepirci. Una volta che abbiamo preso coscienza di ciò, come pensare allora all’io? Un’alternativa che viene subito in mente è quella materialista, scientifica: il mio io non sarebbe altro che l’insieme degli atomi che mi costituiscono e delle loro relazioni che si sono venute a creare; è il prodotto storico di certi atomi che si sono organizzati tra di loro. Un mio gemello non ha il mio io perché egli è costituito da altri atomi; atomi con le stesse qualità dei miei, ma che non sono gli stessi atomi che costituiscono me, allo stesso modo in cui due gocce d’acqua, pur essendo uguali, non solo la stessa goccia d’acqua. Questa concezione comporta ovviamente l’idea che ad un certo punto, con la mia morte, insieme alle varie funzioni del mio corpo, sparirà anche il mio io e non c’è motivo di fantasticare altre vite, immaginate copiando, proiettando in esse quella che conosciamo: sparirà e basta. Questa mia coscienza e autocoscienza di adesso non ci sarà più, sarà tutto finito. La vita è quella che sto vivendo adesso, è inutile immaginarne altre, che sarebbero solo proiezioni di un’ostinazione greca. Ovviamente sto adottando questa prospettiva materialista all’interno di una visione non metafisica: resta inteso che nulla ci garantisce che il mondo sia fatto davvero ed esclusivamente di atomi o comunque solo di quegli elementi che la scienza riesce ad individuare; ma ciò non toglie che con questa prospettiva si possa mantenere un dialogo, fin quando si dimostra fruttuoso.
Ciò che è interessante è che questo modo di considerare l’io non ne sminuisce alcun aspetto. Cioè, veniamo a scoprire che non abbiamo alcun bisogno di far riferimento a modelli soprannaturali per attribuire a quest’io stima, dignità, speranza, valori di ogni tipo. Tutto questo ci fa sospettare che il riferimento al soprannaturale possa essere in realtà sorgente di meccanismi di disistima nei confronti di ciò che siamo e meritiamo; non del tutto per problemi di platonismo, ma quasi: il soprannaturale ci allontana comunque dall’attenzione, dall’apprezzamento verso la materialità che noi stessi siamo.
Tra i cosiddetti “valori” che possiamo attribuire all’io ho citato di proposito la speranza: infatti non abbiamo alcun bisogno di immaginare alcun tipo di sopravvivenza della nostra coscienza, dopo la nostra morte, per poter coltivare speranze oltre di essa: ci basta pensare che ciò che lasceremo ai posteri ci dà vita adesso, ci rende ora persone ricche di esperienza e di spiritualità.
Riassunto del video
La rinuncia alla ricerca sull’io porta a vivere in maniere spersonalizzate, asservite eventualmente anche alla necessità di essere disonesti. Esplorare l’io con mentalità metafisica conduce ultimamente all’egoismo di stampo occidentale, realizzatosi ad esempio nella conquista violenta dell’America; anche l’idea della reincarnazione può essere considerata come ricerca metafisica, perché presuppone un io astorico che si reincarna periodicamente nella storia. Perfino le ricerche neurofisiologiche possono essere sospettate di rispondere al vecchio bisogno di sentirci diversi, sentirci il centro del mondo. L’attenzione all’io come spiritualità è invece attenzione all’io come dinamiche, relazioni, ricerca della ricerca. La meta, come ha avuto modo di dire Jean Louis Ska in un’intervista, è la strada. Come tale si profila più propenso alla non violenza, più socialmente costruttivo, positivo, arricchente.
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