Indice delle lezioni

 

Compagno d’ogni buongiorno,
arrogante dietro pianti di condensa,
che mi hai sempre osato rimprovero
di credere di capire senza sapere,
lasciami amare,
or che mesto intravedo
smorzarsi la fiamma
in un tramonto tempestoso,
più certo che in un flebile sereno,
quella povera ombra
che, di me,
con appannato sentimento,
hai riflesso zuppa di turbamento.

Perché son certo, in cuor mio,
che i frutti della mente,
serbati all’oblio o all’eredità,
hanno ormai la giusta maturità.

Perché son certo, mi rimane,
pel tempo che d’ora innanzi premerò,
il Valore umano dei miei insuccessi,
Fenice dall’ombra dei tuoi riflessi.

Pietro Di Martino

Commento

Questa poesia si può dire a pieno titolo ardimentosa, perché osa presentare il fallimento come valore: è tutto lì il cuore del suo pensiero, nel penultimo rigo:

il Valore umano dei miei insuccessi

Di per sé non si tratta di un’idea totalmente inedita: nella storia è possibile riscontrare ad esempio Socrate, oppure i martiri della mafia, o il vertice raggiunto dalla morte di Gesù. In questa poesia abbiamo però un osare ancora di più. Se pensiamo agli esempi che ho indicato, i relativi fallimenti sono considerati meritevoli di essere attraversati in vista di un valore; si tratterà del valore dell’onestà, o della coerenza, oppure dell’amore divino. Qui invece gli insuccessi non sono presentati come al servizio di un valore, ma sono essi stessi valore; la Fenice che risorge sono gli insuccessi stessi; è come dire che ciò che nella vicenda di Gesù è risorto è la morte stessa; altrimenti possiamo anche dire che Gesù stesso è la morte che è risorta. Gesù non avrebbe mai accettato una simile idea, perché per lui il male è male, la morte è il nemico numero uno, il fallimento è odiosissima sofferenza. In tutto questo possiamo riscontrare la mentalità greca della coerenza, mentre invece la poesia di Di Martino propone qualcosa di diverso, un diverso modo di pensare, un’altra filosofia. Si potrebbe parlare di redenzione dell’universo. Ma andiamo al testo.

Sin dal titolo il protagonista centrale è lo specchio, col riflettere suo, il rinviare un’immagine che provoca il riflettere nostro. La compagnia del buongiorno introduce in un’atmosfera amichevole, che smorza, ma anche contrasta, l’immediata arroganza riferita al verso successivo. Si tratta dunque in partenza di un’esperienza di tradimento: è un compagno arrogante. Quest’arroganza è resa ancora più pesante da un’accusa di falsità e ipocrisia: lo specchio lacrima, sembra avere empatia, vivere dentro di sé le tue sofferenze, mettersi nei tuoi panni, ma è solo arroganza.

In questa poesia, dunque, lo specchio è un interlocutore con cui c’è contesa, polemica. Ma perché lo specchio è arrogante, perché c’è polemica con esso? Lo specchio è arrogante perché ha la pretesa di riflettere, saper riflettere, e riflessione è filosofia. Lo specchio è arrogante perché fa il filosofo e come filosofo ha la pretesa di poter rimproverare, poter dettare cosa è bene e cosa è male. Questo rimprovero fa male al poeta, perché la riflessione ha un potere di convincere. Questa poesia è una lotta contro le convinzioni che lo specchio ha la pretesa di trasmettere, è lotta contro la filosofia, che era riuscita a convincere il poeta di essere colpevole; rivoltarsi contro lo specchio è così un atto di ribellione contro una schiavitù, un’uccisione freudiana del padre, che vorrebbe dettare le regole morali. Il rimprovero che lo specchio filosofo era riuscito ad inculcare al poeta era quello

di credere di capire senza sapere

Ma ora il poeta ha capito che lo specchio, nel rimproverare al poeta di credere di capire, cade proprio esso nella stessa ipocrisia: è lo specchio a credere di capire (capire nel senso di riuscire a contenere l’immagine) e, ciò che è ancora più grave, lo specchio vuole far credere a noi che egli riesce a capire.

La ribellione del poeta è uno sforzo di rivolgere l’attenzione a qualcos’altro: si tratta di una ribellione da attuare al proprio interno, perché è lì che la filosofia produce i suoi inganni, perciò quel

lasciami

è un invito rivolto soprattutto a sé stesso, perché lo specchio riesce ad imprigionare la mente del poeta. Egli compie lo sforzo di scuotersi da questo virus entrato nella mente e trova l’alternativa al riflettere dello specchio filosofo: amare. Si tratta di amare ciò che lo specchio aveva invece comandato di odiare:

quella povera ombra

ombra da odiare perché inzuppata di turbamento. La filosofia non ama il turbamento, la filosofia è riflessione che vuol far credere di essere sempre serena, come le stelle che non vengono turbate da ciò che avviene in terra. È questo l’appannato sentimento: la pretesa della filosofia di apparire migliore, addirittura attraente, perché fa vedere le cose appannate, soffuse, come le foto romantiche ritoccate, altrimenti sarebbe svelata la sua stessa ipocrisia, così come ciò che le foto in realtà ritoccano non è l’oggetto raffigurato, ma sé stesse.

In questo contesto di idee, la fiamma che si va smorzando è il misto di arroganze, rimproveri, entusiasmi e crucci di credere, capire, sapere, buongiorni, è il fuoco di paglia delle ipocrisie che lo specchio aveva sempre suscitato nel poeta, con le sue ipocrisie. Questa fiamma ora sta per essere sostituita da un’altra fiamma, che è più autentica, non è esuberante ed esibizionista come quella della paglia, ma possiede la calma robusta della fiamma che invece scaturisce dalla legna; questa fiamma che possiede il calore vero è l’amore:

lasciami amare

Il tramonto tempestoso, manco a dirsi, è il tramonto delle ideologie. In questa tempesta, però, il poeta comincia a vedere certezze superiori, superiori non per qualche filosofia o religione, ma perché sono parte di una crescita. In questo senso, il flebile sereno era l’ipocrita serenità offerta dalle certezze filosofiche riflesse dallo specchio, flebile come la fiamma da paglia che ora si sta finalmente smorzando per lasciare il posto ad esperienze più autentiche e consistenti.

Nella strofa successiva la nostra attenzione viene reindirizzata alla certezza: la parola “certo” anima ciascuna delle tre strofe e rappresenta lo stato d’animo che il poeta sta riuscendo ad acquisire; non si tratta delle certezze vantate dallo specchio, cioè dalla filosofia, ma di certezze maturate in un cammino di crescita; una crescita che è a buon punto, perché ora il poeta parla di frutti. Sono frutti della mente, quindi pur sempre nati da riflessione, ma una riflessione che ora è riuscita a far polemica contro sé stessa e a riservare un posto adeguato al componente che la filosofia aveva fatto trascurare: l’amore, amore per la povera ombra.

C’è ancora uno sforzo di divincolarsi dalle maglie filosofiche nel dire del poeta a sé stesso che non importa esistere in eterno, risuscitare a una nuova vita, continuare a vivere nella mente altrui, oppure essere dimenticato: tutto questo non importa, è solo vecchia filosofia. Ciò che conta è amare, ora. Questo il poeta gusta come giusta maturità, come frutto che merita di essere assaporato.

Questo frutto è un valore umano, ma non è valore da prestare il fianco ad alcuna crisi dei valori: non corre questo pericolo, perché il mondo neanche si accorge di questo valore, è cieco nei suoi confronti: il valore degli insuccessi. Questo valore

rimane

Il rimanere è un verbo importante, perché indica qualcosa che entra dentro e diventa parte di noi, costituisce la nostra identità, allo stesso modo come prima, invece, ad entrare dentro e costituire la nostra identità era stata la riflessione, il riflettere, propinato dallo specchio.

Il tempo da venire è oggetto di pressione, inseguimento. Questa pressione era prima dettata dal riflettere, ora è dettata dall’amore, l’amore per la povera ombra, ora di nuovo ricordata come Fenice: è questo il valore umano degl’insuccessi.

La Fenice è il mistero della nuova esistenza, ma non si tratta di un mistero troppo misterioso, che presterebbe il fianco a un’accusa di vacuità, indefinitezza. La Fenice è tutto il percorrere vissuto dal poeta e tuttora in corso di attuazione; non è una risurrezione avvenuta una volta per tutte, ma un risorgere continuo, sempre nuovo, sperimentato con tutta la ricchezza d’animo che solo l’amore può dare.

Si tratta di un amore che deve ancora crescere ulteriormente, perché in questa poesia non si parla di amore per l’altro; tuttavia è comunque un processo di crescita, dunque si tratta di amore autentico, che non avrà certo alcuna remora ad aggiungere la gioia di crescere anche nei confronti del prossimo.

Salve a tutti.

Siamo arrivati al post che contiene una poesia di Pietro Di Martino che ha come titolo “Specchiarsi”. Io prendo soltanto lo spunto da un riferimento che si trova in questa poesia per chiarire un tipo di discorso un po’ filosofico. Nella poesia si parla di insuccesso e “insuccesso” lo richiamo al fallimento, specificamente del modo di pensare occidentale, del pensiero occidentale, la filosofia occidentale, che si percepisce fallimentare, nella misura in cui prova a fare autocritica.

Ora, un aspetto specifico di questo fallimento si trova nel suo modo di pensare, nel suo modo di procedere, perché si tratta di un modo di pensare che va per ragionamenti, cerca di capire le cose come stanno. Guardando più in dettaglio questo modo di fare, ci rendiamo conto che si tratta alla fine di un ricercare le cause, il perché di ogni cosa. Possiamo pensare anche al bambino, che, a una certa età, comincia a chiedere ai genitori il perché di tutto, tante volte mettendo in imbarazzo, in difficoltà, perché non sappiamo come spiegare il perché di ogni cosa, specialmente se pensiamo di doverlo fare in maniera facile, comprensibile per un bambino, adatta alla sua mentalità.

Ora, nella ricerca dei perché e delle cause, che cosa viene a succedere? Che, se io cerco cause, motivi, troverò cause e motivi. Ma questo ha come conseguenza che, estendendo questo modo di pensare a tutta la nostra conoscenza, significa che tutto l’universo, tutto il mondo, la vita, noi stessi, tutta la realtà, tutto ci apparirà composto da cause, da motivi, da perché, e questo ci condurrà praticamente a una conclusione di pensiero determinista. “Determinismo” significa come dire quasi “meccanicismo”, come in un orologio. “Determinismo” significa in pratica assenza di libertà. In un orologio gli ingranaggi non sono liberi di fare quello che vogliono, ma ogni ingranaggio è determinato dagli altri movimenti e quindi da qui l’idea di determinismo. Tutto il mondo può essere concepito in questa maniera, ma viene concepito in questa maniera proprio da questa mentalità. Cioè, se io vado a cercare la determinazione di ogni cosa, la causa di ogni cosa, vedrò che il mondo non è altro che un insieme di cause, ma “un insieme di cause” significa “tutto un meccanismo” e allora tutto il mondo mi apparirà determinista. Ma perché mi appare determinista? Perché sono andato a cercare proprio quelle cose. È come dire: se io cercassi di comprendere il mondo con una calcolatrice, tutto il mondo mi sembrerà fatto di numeri.

Ora, questo significa che tante conclusioni sul nostro modo di pensare come è fatto il mondo dipendono, in realtà, dallo strumento mentale che abbiamo scelto per capirlo, per conoscerlo. Quindi non è che il mondo è fatto così, ma ci appare così per il modo in cui noi abbiamo di conoscerlo.

Ora, la ricerca delle cause, insieme a questo modo di vedere il mondo, concludere che il mondo è deterministico, cioè tutto pieno di meccanismi, in assenza totale di libertà, questo ci può far apparire il mondo anche come una gabbia, perché la ricerca delle cause, dei perché, è motivata da questo: dal comprendere. La parola “comprendere” contiene la parola “prendere”, cioè acchiappare, ingabbiare, e allora alla fine tutto il mondo mi apparirà come una prigione, come una gabbia, perché? Ma perché è questo che ho cercato. Se io vado a cercare i perché, le cause, sto andando a cercare le gabbie e quindi non c’è da avere nessuna meraviglia che alla fine tutto il mondo mi apparirà una gabbia che mi tiene prigioniero: perché io sono andato a cercare quello, sono andato a cercare di capire il mondo con quel sistema di idee fatto di gabbie, o di perché, o di cause.

Lo stesso vale per quanto riguarda la ricerca del senso. Cioè dire, che cos’è la ricerca del senso, se non ricerca delle cause, dei motivi? E allora magari sono contento quando ho trovato il senso di qualcosa, ma, nella ricerca del senso della vita, si verrà a verificare il meccanismo che si ha con la ricerca delle cause. Cioè, di ogni cosa si va all’indietro, ricercandone la causa, ma a un certo punto non si può andare all’indietro all’infinito, va a finire che allora, più indietro di tutto, non riusciamo a capire a un certo punto qual è la causa primaria, la causa originaria. Anche se la troviamo in Dio, qual è la causa di Dio, che senso ha Dio, qual è il senso di Dio? Se troveremo un senso: ma qual è senso del senso? E allora, quindi, la ricerca delle cause e del senso ci porta sia a concludere che il mondo è solo un meccanismo senza libertà, ma ci porta anche a concludere che il mondo non ha senso. Ma perché non ha senso? Non ne ha a causa del sistema mentale che io ho adottato per capirlo. Quindi non è che il mondo non ha senso, oppure il mondo è una gabbia, ma sono io che, ragionando con questo modo di pensare, la ricerca delle cause, dovrò arrivare per forza a queste conclusioni, esattamente come ho detto: se uno cerca di capire il mondo con una calcolatrice, alla fine concluderà che il mondo è fatto tutto di numeri.

Quindi tutto ciò significa che, alla fin fine, non possiamo comprendere nulla, noi non capiamo nulla. Tutto ciò che pensiamo di aver capito dipende, per la quasi totalità, non da ciò che abbiamo capito, da come è fatto il mondo, ciò che volevamo capire, ma dipende dallo strumento che abbiamo usato per capire, quindi è lo strumento che detta la conclusione, non è la realtà.

Insomma, lo strumento è come degli occhiali colorati: se prendono gli occhiali rossi tutto mi apparirà rosso, perché ho cercato di vedere le cose con gli occhiali rossi. Solo che qui non si tratta solo di un’ermeneutica, ma si tratta proprio del modo di pensare fondamentale che c’è in tutto l’Occidente, che c’è in noi da un’eternità, si potrebbe dire.

Ora, di fronte a questa sensazione di fallimento del conoscere, è il caso anche di prendere atto che non ce ne possiamo spogliare, non possiamo rinunciare alla ricerca delle cause e dei perché. Piuttosto che pensare di annullare queste cose, demolirle, eccetera, è più conveniente prenderne atto e quindi provare a usare non la liberazione dai modi di pensare, che non esiste, ma cercare di adottare più modi di pensare insieme, facendoli dialogare insieme, che poi non è altro che il discorso che ho già avviato nei video precedenti: il dialogo tra soggettività e oggettività, tra arte e riflessione, oppure potremmo anche dire narrazioni e ragionamenti. Si può dire in tanti modi, per dire che conviene prendere atto dei limiti degli strumenti che usiamo. In questo senso non buttare via gli strumenti, ma cercare di usare molti strumenti diversi, con la consapevolezza che ogni strumento ha i suoi limiti e ci fa vedere anche le cose un po’ deformate, e quindi, per vederle meglio, è meglio usufruire di altre deformazioni, che per lo meno sono diverse, create da strumenti diversi. Non si tratta quindi di diventare pessimisti, ma piuttosto di assumere tutto con umiltà o come un gioco, sapendo che il tutto, più che farci acchiappare, ingabbiare, la realtà, ci può aiutare semplicemente a vivere, e a vivere in una maniera piacevole, proprio a causa di questa umiltà riguardo ai modi di comprendere.

Arrivederci a tutti e auguri di buon cammino.