Indice delle lezioni

 

Presi dalla spiritualità trascurando l’essere per la morte

Per esprimere il concetto dell’essere presi dalla spiritualità mi è utile richiamare qualche ricordo.

Da ragazzino, quando studiavo, leggevo una pagina per la prima volta ed essa risultava prosastica, arida, ostica; la leggevo per la seconda volta e cominciavo a sentirla meno spigolosa, più morbida, un po’ più familiare; la terza volta vi riconoscevo un sapore, una fisionomia, dei punti di riferimento, la trovavo più amichevole.

Un’esperienza simile fu quando, molto tempo fa, in ospedale dovetti mangiare per alcune settimane esclusivamente patate bollite. Dopo i primi giorni mi adattai, cominciarono a piacermi, le attendevo con interesse, in quel sapore individuavo tante sottili sfumature e finezze da apprezzare.

Penso che succeda più o meno a tutti che la familiarizzazione con una cosa qualsiasi ce la renda più amichevole e godibile.

Allo stesso modo, la spiritualità può essere sentita in un primo momento, o le prime volte, anche come qualcosa di sconosciuto e arido, ma col tempo la nostra mente può avvertirvi finezze e sapori. In base alla descrizione iniziale che ne ho dato in questo corso come sbocco del cammino filosofico, essa può essere in partenza nient’altro che un ripiego, ciò che ci rimane da praticare in mancanza di alternative. Col tempo questo ripiego può divenire però un piacere cercato, possiamo sentire il piacere di essere presi dalla spiritualità, salvo la possibilità che col tempo il gusto possa comunque andare perdendosi lo stesso.

Nel momento in cui la spiritualità giunge ad essere un piacere ricercato, o perfino un’esigenza in certi momenti irrinunciabile, l’essere per la morte heideggeriano può essere sentito come un accidente secondario, una spina nel fianco che non merita troppa attenzione di fronte alla bellezza interiore che la spiritualità sta riuscendo a farci sperimentare; trascorrere l’esistenza stando soltanto a guardare e gustare passivamente l’amarezza della morte che ci si avvicina può significare autoprivarci di esperienze spirituali che meritano molto di più la nostra attenzione e il nostro tempo; salvo la possibilità di ritorno spontaneo alla mancanza di gusto, quando “the thrill is gone”, “l’emozione se n’è andata”, come ha cantato meravigliosamente B. B. King.

L’essere per la morte può farsi sentire comunque, sia nei momenti di maggiore piacere nell’esperienza spirituale, sia, a maggior ragione, in quelli di aridità. Ciò può essere sentito come un tradimento da parte della spiritualità, ma può anche essere riconosciuto come salutare, nella misura in cui contribuisce a mantenerci con i piedi per terra, affinché la spiritualità non assuma il ruolo di oppio dei popoli.

Aver conosciuto la consapevolezza che l’essere per la morte può anche essere sentito come secondario, di fronte all’esperienza della spiritualità, può imprimere in noi una memoria che suscita anche un’osservazione critica: ma siamo sicuri che il rischio di essere oppio dei popoli riguardi solo la spiritualità e non anche proprio l’osservazione critica sulla possibilità di qualsiasi cosa di essere oppio dei popoli? Siamo sicuri che l’avvertimento di Marx non possa essere esso stesso oppio? In altre parole, qualsiasi critica presta il fianco a sé stessa se non si affretta ad essere anche autocritica; sembrerebbe che l’autocritica non sia stata il forte di Marx.

La metafisica della realtà, della morte, sembra per certi versi imporsi con prepotenza al nostro spirito, ma dove sta la vera chiusura? Per questo non è possibile individuare atteggiamenti statici ideali: possiamo solo ondeggiare, alternarci tra varie prospettive, sballottati dalle onde del male e del piacere. In mezzo a queste onde può farsi sentire come un bene la memoria delle esperienze spirituali vissute.

Il concetto presentato in questo post si trova espresso anche in Nietzsche, La gaia scienza, Libro quarto, Sezione 334, citato in Solomon, Robert C., Spirituality for the Skeptic (p. vi):

“Bisogna imparare ad amare. – Così va per noi nella musica: prima bisogna imparare a sentire una figura e un’aria in genere, a enuclearla, a distinguerla, a isolarla e delimitarla come una vita a sé; poi bisogna sforzarsi e metterci buona volontà per sopportarla, nonostante la sua estraneità, usare pazienza verso il suo sguardo e la sua espressione, carità verso ciò che ha di strano: – alla fine viene un momento in cui ci siamo abituati ad essa, in cui ce l’aspettiamo, in cui presentiamo che ci mancherebbe, se mancasse. E ora essa esercita e continua a esercitare la sua coercizione e magìa e non smette finché non siamo diventati i suoi umili ed estasiati amanti, che dal mondo non vogliono più niente di meglio di essa e ancora essa. – Ma così va per noi non solo con la musica: proprio così abbiamo imparato ad amare tutte le cose che adesso amiamo. In conclusione, noi veniamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, la nostra pazienza, equità, dolcezza verso ciò che è estraneo, in quanto questo lentamente fa cadere il suo velo e si presenta come nuova, indicibile bellezza: – è il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama sé stesso lo avrà imparato per questa via: non c’è un’altra via. Anche l’amore, bisogna impararlo.”

Riassunto del video

La migliore risposta all’imporsi della metafisica è l’assunzione della storia in un cammino di coltivazione delle sensibilità: Gesù è morto camminando, cioè ha assunto la storia, ha bevuto il calice, e ha fatto di quest’assumere un cammino di crescita. In questo modo facciamo esistere il nostro essere spirituale nella storia. Anche il relativismo non è altro che metafisica che prende atto della storicità del soggetto. Anche dal dubbio si esce raccogliendo la storia. Ciò è anche un limite perché la validità del camminare può essere apprezzata solo nel lungo tempo del vissuto di percorsi storici. La tematica dell’imporsi metafisico della realtà si trova affrontata anche nel video della lezione Vorrei.