Indice delle lezioni

 

Il silenzio è la prima tra le esperienze spirituali

Possiamo farci un’idea pratica e corretta di cosa sia la spiritualità considerando le seguenti esperienze. Quando ascoltiamo, per esempio, un concerto, i suoni, attraverso le orecchie, arrivano fino al nostro cervello e vi provocano delle sensazioni, vi suscitano un’esperienza. Abbiamo così due elementi: l’evento esterno, produttore dell’esperienza, e le sensazioni interiori che si vengono a formare. In teoria, se riuscissimo a ricreare nel nostro cervello, nei nostri neuroni, tutto l’insieme di attività e collegamenti creato dall’evento musicale, avremmo formato dentro di noi l’esperienza di quel concerto, ma senza il concerto stesso, senza l’esperienza esterna che ha prodotto le sensazioni. Ciò che m’interessa in questo discorso non è certamente la ricerca di un sistema per creare in noi l’esperienza dei concerti senza bisogno di ascoltarli; m’interessa piuttosto isolare concettualmente i due momenti: l’evento esterno, sorgente dell’esperienza, e l’esperienza interiore che si è venuta a creare. L’esperienza interiore è proprio ciò che io chiamo “spiritualità”. Meccanismi simili, con la stessa distinzione che abbiamo operato, tra sorgente ed esperienza interiore risultante, possono realizzarsi in molti altri modi: quando ad esempio leggiamo un libro, o incontriamo un amico, oppure ammiriamo un paesaggio.

Questo modo d’isolare concettualmente le esperienze spirituali c’induce a prendere atto che, perché ci sia esperienza spirituale, è sempre necessario un evento che la susciti; in altre parole, l’esperienza spirituale è sempre un aspetto di un evento globale, non può verificarsi se non in concomitanza con il succedere di qualcosa. Questo significa anche che ogni esperienza spirituale è sempre dipendente, determinata, “colorata”, dal tipo di evento che l’ha suscitata.

Una volta che abbiamo isolato concettualmente l’esperienza spirituale, non solo possiamo pensare ad essa come momento separato dall’evento che l’ha suscitata, ma, anche se non abbiamo né gli strumenti, né l’intenzione di provocare in noi l’esperienza senza la sorgente, in qualche modo ci riusciamo lo stesso, senza alcuno speciale accorgimento, anzi, si tratta di un’attività normalissima che tutti compiamo abitualmente: mi sto riferendo al ricordare, il tornare con la memoria. Attraverso la memoria è possibile in qualche modo suscitare di nuovo nella nostra mente ciò che abbiamo vissuto quando abbiamo ascoltato il concerto. In questo caso abbiamo un vero esempio di isolamento materiale, reale, non solo concettuale quindi, dell’esperienza spirituale dall’evento che l’ha prodotta. Rimane però la dipendenza della “coloritura”, nel senso che quell’esperienza, anche se recuperata con la sola memoria, rimane pur sempre l’esperienza di un concerto, esperienza di musica, non è esperienza spirituale e basta. Da questo punto di vista, l’esperienza spirituale “pura”, “tale e quale”, non esiste, a causa di quanto abbiamo detto sopra: è sempre necessario un evento “coloritore”, fosse anche il solo evento del ricordare, del tornare con la memoria. Chiarito questo, rimane possibile apprezzare, diciamo, la minore, o meglio, diversa “coloritura” di un’esperienza spirituale prodotta dal semplice contemplare in silenzio. Da questo punto di vista si può pensare che l’esperienza spirituale in quanto tale si coltiva e si apprezza maggiormente nel puro silenzio, piuttosto che in altre esperienze maggiormente condizionate da eventi più particolaristici. Ciò non significa affatto che il puro silenzio possa sostituirsi alle altre esperienze spirituali: siamo esseri umani adattati a vivere in questo mondo e in certi modi, non siamo per natura predisposti a vivere come angeli o come spiriti, sebbene ognuno possa coltivare le accentuazioni che preferisce.

 

Salve a tutti. Siamo arrivati al video “Il silenzio e le esperienze spirituali”.

Per quanto riguarda il silenzio, un’annotazione che credo fruttuosa possiamo fare è riguardo proprio al fare silenzio, cioè dire, pensando al silenzio, uno può pensare che per fare silenzio bisogna astenersi dal fare qualcosa, tirarsi indietro, fermarsi. Però usiamo il verbo fare, fare il silenzio, non il non fare. Questo può richiamarci l’idea che il silenzio, in realtà, piuttosto che un “non fare”, si può apprezzare come un produrre qualcosa in effetti, produrre un’esperienza per noi, per gli altri e, in quanto produzione, diventa produzione di qualcosa che può essere ascoltato, che vale la pena di ascoltare. Così come un musicista produce un’opera musicale, chi fa silenzio non è che non produce niente. Sta producendo un’esperienza per sé, per gli altri, la sta interpretando, la sta vivendo e questo si può considerare un vero e proprio fare. Ora, per quanto riguarda questo fare, teniamo anche presente che in ogni caso, per la nostra esperienza umana, il silenzio ha pur bisogno di contenuti. Contenuti sia a cui contrapporsi – è facile in questo senso mentalmente concepire la contrapposizione tra il silenzio il non silenzio, e il rumore, il chiasso, il suono, eccetera – ma il rapporto con i contenuti, oltre che come contrapposizione, può essere quello di contenimento, cioè i contenuti – il contenuto in questo senso può essere il suono, la voce, un discorso, una musica, eccetera – a dispetto del nome, che li fa chiamare contenuti, in realtà, da questo punto di vista, si possono considerare contenitori di silenzio. In questo senso il silenzio, per esistere, ha bisogno di essere contenuto in qualcosa. In altre parole, siamo esseri umani e non possiamo sperimentare il puro, assoluto, esclusivo silenzio, che poi sarebbe soltanto il nulla e basta. Questo tipo di contrapposizione potrebbe far affacciare alla mente un’idea troppo astratta, cioè della necessità degli opposti, come quando si può pensare: il bene per esistere ha bisogno del male, il silenzio per esistere ha bisogno del rumore, eccetera. Credo che in questo modo di pensare ci sia il rischio di commettere un errore, cioè considerare questo come un principio. Cioè, per il bene ci vuole il male, altrimenti del bene non ci possiamo accorgere, eccetera. Sì, può essere vero, ma questo non per un principio astratto, universale, generale, eccetera, ma per un principio piuttosto storico, nel senso che ci veniamo a trovare in questo mondo che è fatto così nella nostra esperienza, nel nostro modo di vederlo e di interpretarlo. Quindi non perché le cose stanno così, ma perché ci siamo venuti a trovare così. Anche quando diciamo quindi che il silenzio deve essere contenuto in qualcosa, anche questo non è un principio astratto, ma un’esperienza che facciamo. Ora, da questo punto di vista, visto che il silenzio ha bisogno di rapportarsi con dei contenuti nella nostra esperienza, viene a risultare che il silenzio è storia, ha bisogno di storia per poter essere nella nostra esperienza, si basa sulla storia, i contenuti sono questo in fondo: storie: dei fatti in cui il silenzio viene ad abitare e con cui il silenzio viene a instaurare una dialettica, una relazione. Ora, una volta tenuto presente questo, cioè che il silenzio è storia, è esperienza di storia, interpretazione di storia, possiamo aggiungere che, così come in generale l’esperienza spirituale, il silenzio, una volta che viene coltivato, viene ad abitare in noi, in modo tale che anche quando non lo facciamo, anche quando siamo impegnati in altre attività, come può essere il lavoro, o qualsiasi altra cosa, questo silenzio può continuare a influire nel nostro essere e quindi perfino a trasparire, al punto che può anche succedere che altri possano recepire, eventualmente anche senza neanche accorgersene loro stessi, che nel nostro fare, nel nostro modo di vivere, nel nostro stile, traspare un silenzio che abbiamo coltivato, anche quando parliamo. Così come, quando ascoltiamo un brano musicale, è possibile recepire un silenzio presente in esso, e mi riferisco non solo ai silenzi musicali, cioè quando gli strumenti smettono di suonare, quando ci sono delle pause, ma proprio nel modo in cui quel suono è stato organizzato, nel modo in cui il compositore ha concepito quell’opera, o l’interprete la sta interpretando, proprio nel suono si può percepire un silenzio, il suono stesso può essere portatore di un’esperienza di silenzio per il modo in cui è stato interpretato o creato dal suo creatore. Quindi significa che io stesso posso o far percepire ad altri, oppure percepire anche io stesso, man mano in me stesso, che in me c’è un silenzio che si fa strada e che viene a creare uno stile proprio anche mentre io faccio altre cose, anche quando non faccio silenzio. In questo senso il silenzio non ha bisogno per forza del silenzio per manifestarsi; si può manifestare anche nella sua negazione, anche proprio in mezzo ai suoni e tutto dipende dallo stile con cui tutto ciò viene portato avanti. Ora, tutto questo io lo sto portando avanti in una visione che si può considerare tutto sommato materialista, nel momento in cui dico che il silenzio è storia, anche se io non escludo tutto il resto, ma mi basta questo, cioè non ho bisogno di fare appello ad altri mondi per pensare a chissà che cosa può darmi il silenzio: mi basta il silenzio storico, che si rivela già sufficientemente non solo ricco di esperienza che può darmi, ma promettente di esperienze tutte sconosciute, tutte da esplorare e che continuamente mi fanno scoprire cose inedite che ci sono nell’esistenza e che proprio il silenzio riesce a farmi vedere, sulle quali proprio il silenzio mi apre gli occhi. Quindi auguro a tutti di esplorare con frutto le possibilità storiche che il silenzio permette nella nostra vita e con esso creare degli stili che siano per tutti interessanti, gli uni per gli altri, e che rendano tutta l’esistenza in questo mondo più interessante. Arrivederci quindi alle prossime puntate e auguri a tutti di portare avanti esperienze interessanti.

Salve a tutti. Tutto merita di essere valorizzato per un’esperienza spirituale e tuttavia porrei al primo posto tra tutte le attività possibili quella del silenzio. Ora, in questo video vorrei evidenziare che a un secondo posto porrei la lettura, la lettura della parola, quindi il libro. Non per un qualche principio teorico astratto, ma perché storicamente non è difficile osservare che le esperienze spirituali vengono riferite in gran parte facendo riferimento o al silenzio oppure a un testo scritto. Basti pensare alle grandi religioni del “Libro”, l’Ebraismo il Cristianesimo, l’Islam, e quindi la Bibbia, il Corano, che mostrano una cura che potremmo dire addirittura maniacale per la parola scritta, una parola che viene considerata addirittura come cibo quotidiano, come presenza essa stessa di Dio e quindi parola che merita di essere curata, coltivata, seguita, custodita. Ora, per quanto riguarda la parola, si potrebbe notare che essa può contenere un rischio: il rischio di far dimenticare l’indicibile, cioè guidare a sé stessa soltanto, alla parola. Ora, riguardo a questo, credo che il rischio sia abbastanza piccolo, perché la parola ha questa capacità di negare se stessa, rinnegare se stessa e rinviare a ciò di cui essa non è capace, quindi sia il silenzio, sia l’indicibile. C’è un esempio interessante in questo senso nella Bibbia stessa, cioè l’esperienza di Mosè, Mosè che non sapeva parlare e quindi dice a Dio “Manda Aronne a parlare al popolo, lui che è più bravo con la parola”. Dio vuole che sia Mosè a dare il messaggio al popolo, proprio perché egli è scarso di parola, perché è bene che la parola rinvii a ciò che essa non può contenere. In questo senso l’opera di Schoenberg “Mosè e Aronne” tende a evidenziare proprio questo: la voce di Mosè che è disarmonica, difficile da afferrare con il nostro senso musicale, mentre quella di Aronne è molto più melodica, per dire proprio questo: la parola è in grado di dire molto, ma il suo zoppicare può essere prezioso per ricordarci che esiste l’indicibile, che può essere più grande della parola di quanto la parola possa essere in grado di comunicare. In tema di parola, di lettura di libro, ritengo importante che essa venga vissuta come cammino all’interno di un progetto. Cioè, è banale far parlare un libro così, a caso, nonostante ci siano coloro che dicono di prendere la Bibbia, la aprono, vediamo Dio cosa mi vuole dire oggi. Questo addirittura si può considerare violenza, sia alla parola sia a Dio, perché significa costringere Dio a dirmi per forza qualcosa, al di là del fatto che è fatalismo, una sacralizzazione di quel testo, come se fosse un testo magico, ma comunque, al di là di questo, in ogni caso ritengo fruttuoso che la parola venga inclusa in un progetto, che non uccide la spontaneità, perché proprio la spontaneità può ricevere valorizzazione proprio dall’essere messa in conto in un progetto. Ora, per quanto riguarda la progettualità, potremmo piuttosto tener presente il rischio che essa diventi rito. In sé il rito non è una cosa cattiva, ma il rito può contenere la tentazione di venire sacralizzato, divinizzato, come se esso dovesse avere la soluzione dei miei problemi, cioè: mi sono dato l’appuntamento tutti i giorni con questa pratica e quindi essa deve darmi il conforto, ciò di cui ho bisogno, eccetera. In questo senso la parola può rivelarsi deludente. Deludente perché anch’essa ha dei limiti e quindi ritengo che nulla vada divinizzato, almeno nel mio punto di vista specifico. Ogni cosa, però, considerata nei suoi limiti, nei limiti che dimostra, è capace di dare tantissimo, più di quanto noi stessi saremmo capaci di immaginare, purché non ci si aspetti da essa più di quanto può dare: essa è soltanto uno strumento di coltivazione della spiritualità, così come tutta la spiritualità contiene i suoi limiti. Un’altra annotazione riguardo al libro, alla parola, è il ritenere, tener presente che essa è un’opera d’arte, è una produzione, la produzione di qualcuno. Come tale può essere utile tener presente che essa è capace di vita autonoma. Cioè, di fronte a un testo scritto non è detto che il massimo, il meglio sia quello di chiedersi “Vediamo cosa voleva dire l’autore”. Il testo, una volta prodotto dall’autore, è capace legittimamente di dire anche ciò che l’autore non immaginava, o che in lui era soltanto inconscio, che non era previsto, perché io ormai non ho l’autore, io ho la parola e allora è da essa che mi lascio interpellare, provocare: la parola può essere in disaccordo con me, oppure io la posso al contrario modellare secondo i miei preconcetti. Avviene insomma tutto un dialogo, una relazione con la parola, destinato a portare avanti l’esperienza spirituale. Infine, per quanto riguarda questo rapporto con la parola, comunicazione col libro, un’altra annotazione. Cioè, per quanto riguarda il comunicare, che può avvenire con la parola scritta, oppure anche con persone vive, credo utile tenere presente che, ultimamente, l’esperienza spirituale è pur sempre esperienza del singolo. Cioè, l’esperienza spirituale è ricchezza nel momento in cui è anche comunicazione con gli altri, la collettività, la socialità, eccetera, ma alla fine gli altri non ci sono sempre nella mia vita. Ma l’esperienza spirituale ci deve essere sempre e in questo senso allora questo ragionamento mi porta a dire: l’esperienza spirituale poi ultimamente è esperienza del singolo, anche se ovviamente è destinata a comunicarsi, a viversi con tutto l’arricchimento che può dare, sia in tutte le esperienze possibili, sia particolarmente nell’esperienza del comunicare con gli altri. E basta, al solito termino con un augurio a tutti perché ogni cosa, e specificamente la lettura, il libro, la parola venga valorizzata per un’esperienza spirituale che che ci faccia sempre più crescere, sia come singoli, sia come comunità di questo pianeta e arrivederci a tutti alla prossima puntata.