Indice delle lezioni

 

Quanto ho già scritto riguardo alla non violenza si presta ad essere interpretato come perdono. Ho già fatto riferimento al perdono come azione valida e non risolutiva, adesso possiamo esaminarne altri dettagli.

Lungo tutto il corso ho distinto tra spiritualità umana e spiritualità universale, interpretabili anche come bene e male, ma ambedue in reciproca contaminazione, suggerita dal fatto che entrambe sono qui dette comunque spiritualità. Questa distinzione-unione permette di renderci conto che ciò che può richiedere perdono non è soltanto il male commesso da qualcuno, ma, radicalmente, tutto il male universale, incluso, quindi, anche un terremoto o un martello che per errore mi sbatto su un dito. Una volta che i concetti di colpa e di libertà sono indimostrabili, se ciò può essere motivo per perdonare alle persone, procedendo nella riflessione si rivela un motivo per la necessità di perdonare all’universo intero: il male commesso dalle persone è solo una delle tante manifestazioni del male globale. Il perdono si viene così a presentare come via di comprensione di un mondo che, a causa dell’esistenza del male, risulterebbe altrimenti del tutto incomprensibile e inaccettabile, addirittura impensabile.

L’universo ci si presenta così come una specie di personaggio impersonale, uno zombie, un volto senza pupille, incolpevole, che procede somministrando senza giustizia bene e male, dolcezze e strazi, e può rientrare nella sfera delle nostre consapevolezze soltanto a patto che esercitiamo nei suoi confronti un qualche tipo di perdono.

Questo nostro perdonare non sarà altro, comunque, che esso stesso parte di quest’universo che richiede di essere perdonato: se l’intero universo è male, non possiamo evitare di concludere che anche il perdono nei suoi confronti non potrà non essere anch’esso un male che ne fa parte. Ne consegue che anche il nostro perdonare richiederà di essere perdonato, non esiste un perdono che non sia inquinato dal male. Questa meta-catena del perdonare, tuttavia, lungi dall’inficiare questa filosofia del perdono, la conferma, allo stesso modo in cui dubitare del dubbio non elimina la necessità di dubitare, ma la rafforza. In questo contesto diventa ovvio che anche il silenzio richiede di essere perdonato; d’altra parte, quando ne abbiamo parlato, non ci siamo nascosti i suoi limiti.

Questo discorso sulla necessità universale di perdono ci dà occasione di precisare qualcosa sulla nostra fruizione dell’arte. Possiamo prendere come riferimento una qualsiasi opera universalmente riconosciuta come capolavoro, per esempio la Gioconda, oppure la Divina Commedia o una sinfonia di Beethoven. Queste opere, oltre che comunicarci una grandezza, non possono nascondere ad una mentalità critica anche il loro limite, il loro essere sporche della fisionomia umana di chi le ha create, il fatto che non tolgono il male dal mondo, anzi, sono esse stesse complici di mali e di sfruttamenti; detto in un linguaggio che si sforzi di comunicare la contraddizione che contengono, possiamo dire che questi capolavori, insieme ad essere sublimi, non nascondono tutta la puzza della merda dei loro autori, una puzza tanto più odiosa nella misura in cui non possono nascondere neanche un’abbagliante luce di alta e profonda spiritualità. Sono opere che in certi momenti sembrano dare tutto allo spirito, ma in altri rivelano tutto il loro essere vuote, banali, perfino sciocche. In un linguaggio più filosofico possiamo dire che neanche l’arte riesce a reclamare un minimo di sua validità metafisica, oggettiva, anzi, nulla di più facile che evidenziarne le beghe e la sporcizia.

Nel contesto del nostro discorso sul perdono, il senso con cui fruire del valore delle opere d’arte si fa più comprensibile: non ci si nasconde la loro umana condizione, ma la si perdona; si tratta di un perdono detto a chiare lettere, opposto del tralasciare e dimenticare, così da non cadere in un’improduttiva autoprivazione di quanto di valido hanno da trasmettere. D’altra parte, la critica d’arte è stata da sempre schietta su questo, basta solo accostarla non come turisti che ascoltano il cicerone, ma da persone che ne tentano una conoscenza con un minimo di approfondimento e serietà.

Nonostante quanto abbiamo detto sulla necessità del perdono di essere esso stesso perdonato, ci ridurremo solo a belle parole, molto politically correct, se non metteremo in conto che esso non può affidare la sua esistenza alla misura in cui troviamo in noi la forza e l’energia per praticarlo: un perdono esercitato con questo spirito sarebbe ucciso dalla nostra stanchezza già prima di nascere. È facile da qui dedurre che lo spirito dovrà essere necessariamente opposto; cioè, un perdono che non si spenga prima di nascere dovrà essere per chi lo pratica un nutrimento. Credo che questo possa avvenire intendendo il perdonare come un camminare, un crescere. Questo viene ad essere il senso fondamentale del perdonare: si perdona per tentare di vivere un’esperienza di crescita.

Tutto questo discorso viene a risultare differente da Gesù o dal cristianesimo in genere: essi non hanno perdonato alla morte la colpa di esistere; per lo meno il cristianesimo, se non proprio Gesù, ha sentito necessario pensare Gesù come risorto; questa colpevolizzazione della morte è risultata una zappa sui piedi, creando a sé stessa il problema della teodicea. Credo che invece una spiritualità che voglia aderire il più possibile all’esperienza umana dell’esistenza non possa evitare di esercitarsi in continuazione in un cammino di perdono alla morte del fatto di esistere. Su questo possiamo anche pensare a san Francesco, che chiamò la morte “sorella”, cosa che Gesù non avrebbe mai ammesso.

Ciò potrebbe aprire la strada ad un perdono che si fa complice del male, magari in vista di giustificare in anticipo le nostre future disonestà, ma già Gesù si prestò all’accusa di essere complice della delinquenza per il suo troppo perdonare e questo basta a mostrare che perdonare la morte e il male non significa essere dalla loro parte.

Riassunto del video

La forza di perdonare si ricava dalle esperienze positive del camminare. Si tratterà di cammini nelle sensibilità, da cui si ricaverà anche sensibilità per proprio per questo camminare tra di esse. La sensibilità si costruisce in particolare attraverso la pratica.