Indice delle lezioni

 

Nel V secolo a.C. il filosofo Parmenide, morto nel 450, enunciò il principio di non contraddizione: “l’essere è, e non può non essere”, “il non essere non è, e non può essere”. Il suo contemporaneo Eraclito (535-475 a.C.) richiamò invece l’attenzione sul fatto che tutto scorre, diviene, è in movimento. Zenone di Elea (489-431 a.C.) evidenziò le contraddizioni, le incompatibilità tra questi due modi di pensare, ideando alcuni paradossi, come quello di Achille e la tartaruga. Questi paradossi non fanno altro che porre in collegamento i concetti di essere e di movimento; da questo collegamento viene fuori un terzo concetto, quello di infinito, il quale innesca il paradosso. Oggi l’attenzione al linguaggio ci consente di valutare con maggiore consapevolezza le articolazioni di questi concetti, permettendoci di pervenire a conseguenze interessanti di tipo esistenziale.

Vediamo di chiarire meglio queste articolazioni.

Se iniziamo con Parmenide, veniamo a trovarci essenzialmente in un mondo di staticità, un mondo aritmetico, in cui due e due fanno quattro e nient’altro che non possa essere riconducibile al numero quattro.

Tuttavia, la critica della nostra esperienza ci fa prendere atto che simili staticità sono soltanto frutto di illusione, come quando la limitatezza dei nostri occhi ci fa illudere che le lancette di un orologio siano ferme. È la critica a farci concludere che le lancette si muovono: mettendo a confronto il ricordo della loro posizione di mezzora fa con quella di adesso, concludiamo che si sono mosse; ci sembrano ferme soltanto perché si muovono in modo talmente lento che il loro movimento non risulta percepibile ad occhio nudo.

La critica dell’esperienza del movimento delle lancette dell’orologio mette in crisi il concetto che esprimiamo attraverso il verbo essere: ci rendiamo conto che, se vogliamo essere esatti, non è mai possibile dire che ora è perché, appena lo diciamo, il passare dei secondi e dei millesimi di secondo smentisce immediatamente ciò abbiamo affermato: se diciamo “Sono le quattro”, il tempo necessario, sia a dirlo che a pensarlo, è abbastanza lungo da rendere impossibile determinare l’attimo preciso in cui erano davvero le quattro, non un millesimo di secondo in più o in meno. È a questo punto che ci rendiamo conto che la combinazione dei concetti di essere e di movimento ci conduce al concetto di infinito. Abbiamo parlato infatti di millesimi di secondo, ma, anche se il nostro dire e pensare fosse in grado di dire che ora è in un milionesimo di secondo, esisterebbe sempre un’unità ancora più piccola in grado di smentire la nostra affermazione, così come i millesimi di secondo sono in grado di smentire la lentezza attuale del nostro parlare e pensare.

Da qui nasce inevitabilmente il sospetto che non esiste un momento in cui sono le quattro esatte e il nocciolo del problema sta nel linguaggio, cioè nel dire “Sono le quattro”. Se tutto scorre, significa che il verbo essere non è mai applicabile e, ciò che più è importante, non è mai applicabile neanche concettualmente. Cioè, non ha senso “immaginare” l’attimo in cui sono esattamente le quattro, perché il nostro immaginare non può realizzarsi se non all’interno del tempo e non possiamo pretendere di sapere come funzionano le cose al di fuori del tempo. Ne consegue che anche la somma 2 + 2 = 4 funziona solo fin quando ci atteniamo a modi di pensare imprecisi, come quando ci permettiamo di accettare per vera l’espressione “Sono le quattro”. Se vogliamo attenerci a modi di pensare critici, siamo costretti ad ammettere che non sappiamo se esiste un attimo in cui due e due fanno quattro, perché l’immaginazione di quest’attimo implica l’immaginazione di una condizione senza tempo da parte della nostra mente, la quale invece non ha altra esperienza se non di ciò che si trova dentro il tempo e cambia in continuazione. Infatti, se tutto scorre e cambia, anche il risultato di 4 per la somma 2 + 2 è da sospettare come soggetto a cambiamento. L’idea stessa di “condizione senza tempo” è dunque una fantasia, utilissima per semplificare gli affari della vita quotidiana, ma incapace di reggere alla critica.

In termini esistenziali, ne consegue che la nostra vita quotidiana è possibile solo grazie alla contraddizione, l’inganno, l’ipocrisia, altrimenti ci perderemmo in continuazione nei meandri dell’infinito implicato dal divenire. Per esempio, ci sarebbe impossibile dire che ora è o calcolare il prezzo da pagare per un acquisto.

Da tutto ciò emerge che il concetto di infinito è una falsità se pensiamo di considerarlo come qualcosa di statico. Esso sembrerebbe funzionare da un punto di vista di certa logica, ma dove sta l’inghippo che ha consentito a Zenone di mettere in crisi il mondo intero? Sta nel linguaggio: è lì la radice delle nostre contraddizioni. Infatti, “infinito” significa “non finito”; ma “non finito” implica in realtà il concetto di tempo, significa cioè “non ancora finito”, “ancora in corso”, “ancora in attività”. Ciò significa che è linguisticamente contraddittorio pensare un infinito statico, un infinito che già nel suo essere istantaneo è infinito. “Infinito” significa qualcosa che ha cominciato e non ha ancora finito. Nulla può essere infinito se non nel suo modificarsi nel tempo. Se lo isoliamo dal tempo, non può essere infinito, perché la parola “infinito” implica un verbo, un’azione. Nulla può finire o non finire se prima non è cominciato o comunque non si trova in corso di svolgimento. È il non esserci accorti del fatto che la parola infinito non può esistere, se non in un contesto di azione, di movimento, ad aver consentito a Zenone di escogitare il paradosso di Achille e la tartaruga. Questo paradosso infatti s’innesca nell’attimo in cui diciamo che la distanza tra Achille e la tartaruga è divisibile in un numero infinito di parti. L’inghippo sta nell’aver usato il verbo essere, che implica un contesto di staticità, in combinazione con il concetto di infinito, che invece non sarebbe mai potuto nascere nelle nostre menti in assenza del divenire e del tempo. La distanza tra Achille e la tartaruga è divisibile all’infinito, ma dividerla all’infinito comporta compiere nel tempo tale azione di divisione. La divisibilità concettuale all’infinito non può essere considerata come già compiuta e presente, solo perché sappiamo che è possibile compierla. Una distanza è concettualmente divisibile all’infinito soltanto mentre tale concettualizzazione viene effettuata da una mente; altrimenti ci troveremmo a concludere per certo che tutto ciò che siamo in grado di pensare esiste ed è come lo pensiamo anche quando non ci pensiamo. Ma questo è un ragionamento che può andare bene per la vita di ogni giorno, non per un pensare radicalmente critico.

A questo punto facciamo un’altra osservazione: eravamo partiti da Parmenide, immaginando i concetti di essere e di non contraddizione come i più elementari e quindi i più adatti a servire come base per i ragionamenti successivi; dopo le osservazioni critiche dobbiamo come minimo sospettare che i concetti più elementari non siano l’essere e la non contraddizione, bensì il divenire, il moto. Ora, una volta che purtroppo, storicamente, il nostro linguaggio, essendo nato per la vita di ogni giorno, si è organizzato con strutture che in larga parte contengono la falsità del fare a meno del divenire, come quando diciamo che ore sono o il prezzo che abbiamo da pagare per una spesa, dobbiamo prendere atto che il nostro linguaggio quotidiano, confrontato criticamente con i ragionamenti precedenti, vive di contraddizione. Cioè, se la base dell’essere del mondo non è l’essere, ma il divenire, mentre noi, come poveri esseri umani, viviamo quotidianamente di concetti statici, dobbiamo concludere che la base necessaria del nostro vivere quotidiano è la contraddizione, la falsità, potremmo perfino dire l’ipocrisia. In altri termini, ci sarebbe impossibile dire che ore sono senza la falsità di dare a intendere che ciò sia possibile; ci sarebbe impossibile dire che due e due fanno quattro senza la falsità di far finta che possa esistere una condizione senza tempo in cui il dare quattro come risultato non è turbato dai cambiamenti introdotti dal divenire; ci sarebbe impossibile dire che la distanza tra Achille e la tartaruga è infinita, se non dimenticando che infinita vuol dire che è in divenire, è in trasformazione, altrimenti cos’è che questa distanza non avrebbe ancora finito di fare, di compiere, in modo tale da poterla considerare “non finita”? Si pensi alla sensazione strana di provare a dire che una certa cosa “ormai è infinita”: si prova una strana sensazione proprio perché la parola “ormai” presuppone la fine di un’azione; equivale a dire che una certa cosa “è definitivamente infinita”: ecco la contraddizione messa a nudo.

Da tutto questo nascono le accennate conseguenze esistenziali nel rapporto tra spiritualità umana e spiritualità universale; se la spiritualità universale è la metafisica, l’oggettivo, notando che “oggettivo” significa statico, stabile, vero, dobbiamo concludere che non è possibile spiritualità umana, esistenza umana, se non ponendo in atto contraddizioni, falsità, ipocrisie, che funzioneranno in base al loro essere più o meno adatte per un’epoca, un tempo, un luogo geografico; falsità che come tali sono sempre destinate ad essere oltrepassate da altre falsità che col tempo si saranno dimostrate più adatte all’epoca in cui si è giunti o alle nuove condizioni che nel tempo si sono venute a creare; oppure deve trattarsi di falsità capaci di flessibilità, di automodifica.

Da qui si può sospettare che le religioni resistono al problema della teodicea proprio grazie al loro essere false, contraddittorie, perché problema della teodicea significa speranza, conforto. Non è possibile speranza umana senza praticare ipocrisia, o comunque qualcosa che risulti o sembri tale.

Riassunto del video

Se s’identifica il male con il particolare, ne risulta che il problema della teodicea non trova risposta perché un Dio concepito come universale si trova ad essere negato dalla semplice esistenza del particolare. Per lo stesso motivo il male mette in crisi anche il nostro pensare il mondo in maniera universalista, astratta. Un’alternativa al pensare astratto è quello che si basa sull’esperienza, oltre che sul riflettere.