In alcune opere di Giuseppe Alletto gli occhi sono nascosti, bui, a volte proprio come una caverna che incute paura ad entrarvi. Si può pensare che si tratti della caverna del nostro inconscio, il nostro intimo, dove in realtà risiede il nostro io più autentico. Si può interpretare questa scelta come un invito a portarsi con la mente oltre l’esteriorità del volto rappresentato, insomma, come se il ritratto dicesse “Guardami dentro, a questo solo serve questo mio volto”. Trovo che sia anche il caso di questo ragazzino, i cui occhi sono chiusi non per il puro caso di trovarsi nella tensione del grido, ma come richiamo ad andare dentro il suo spirito, di cui quanto è visibile nel quadro è soltanto come un dito indice puntato verso l’interiorità.
Il quadro è incluso tra le coordinate tipiche delle foto di un archivio di polizia o possiamo pensare anche di manicomio. In questo senso è chiara la fortissima tensione tra le linee squadrate, che tentano di ingabbiare il dato oggettivo, e il grido furente che fa di tutto per bucare questa gabbia, bucare il quadro, come se il quadro stesso fosse una prigione. In questo senso possiamo anche pensare all’idea espressa da Michelangelo, “Ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé ed è compito dello scultore scoprirla“. Nei quadri di Alletto è possibile percepire questo tentativo di bucare il quadro stesso; tentativo che Fontana mostrò nella maniera più plastica, tagliando materialmente le sue tele, mentre in Alletto emerge in una duplice direzione: c’è l’immagine che tenta di uscire dal quadro, quindi bucare il quadro andando verso lo spettatore, ma c’è anche il richiamo affinché lo spettatore buchi il quadro e vi entri dentro: è quanto dicevo a proposito degli occhi chiusi come invito ad andare dentro. Potremmo obiettare all’artista che egli stesso sia colpevole di “inquadrare” il soggetto nel momento in cui ne fa un “quadro”, ma la gabbia in cui Alletto rappresenta i suoi soggetti non è in realtà il quadro che è stato disegnato; è la vita, è l’io stesso, ma in questo senso si tratta dell’io come scorza, come super-io, che la società ci ha fatto costruire intorno al nostro io intimo, quello più autentico, che ve ne rimane imprigionato come un baco nel suo bozzolo. In questo senso, rispetto al gesto estetico di Fontana, quello di Alletto appare più vicino alla vita, alla condizione umana: infatti non abbiamo davanti un quadro astratto, ma il ritratto di una persona.
Parlando di urlo di questo ragazzo, di grido, come non pensare all’urlo di Munch, le cui linee sono invece flemmatiche, fanno pensare a uno zombie; in effetti anche il ragazzino di Alletto può essere interpretato come morto, ucciso, sopraffatto, e quindi colto, come da una foto istantanea, nell’attimo in cui tirava fuori il suo ultimo sforzo di contrapporre la sua energia al mondo. Ma anche quando fosse pensato come ormai morto, questo ragazzo conserverebbe intatta tutta la forza di una protesta che vuole essere presente nell’oggi, come a dire allo spettatore: stai attento, perché questo ragazzo che grida sei tu, abita in te, è il tuo io che aspetta di essere liberato. In questo senso, al contrario, gli occhi del grido di Munch sono spalancati, non rinviano all’interiorità come appare invece in Alletto, sebbene le convoluzioni del tratto di Munch richiamino pur sempre un mondo di sogno, o meglio, di incubo.
Proseguendo nell’osservazione, in questo ragazzino notiamo un altro contrasto, quello tra la dolcezza tipica dei tratti infantili e la spigolosità appuntita di quei capelli sulla fronte, la tenebrosità del bianco e nero generale e della metà del volto immersa nel buio, la tensione delle labbra, specialmente quello inferiore teso in giù ad evidenziare gengive, denti che esprimono un dramma insanabile. La piccola punta centrale del labbro superiore bilancia invece quest’aspetto, comunicando un’area diversa, seppur limitata, una piccola oasi, da cui promana attenzione, riflessione, meditazione. È la stessa punta centrale leggermente pronunciata che è possibile notare anche nel ritratto di William Butler Yeats e in quello di Giorgio De Chirico, anch’essi di Alletto.
Appare chiaro, dunque, in conclusione, che quest’opera di Alletto suona come un avvertimento, un allarme, un tentativo di dar voce all’io che oggi viene rinchiuso, messo a tacere, in definitiva viene fatto soffrire, ma la massa non si accorge neanche di questa sofferenza, questo gridare intimo che è in ognuno di noi. Ci troviamo dunque davanti a un’urgenza, un’emergenza: non si tratta qui di scoprire e godere le bellezze, il piacere dell’universo della nostra interiorità: quest’interiorità, che originariamente si prestava a suscitare il piacere della contemplazione, è stata devastata, calpestata, violentata, e a volerla esplorare non s’incontrano più bellezze da ammirare, ma popoli interi, un universo intero che grida la sua oppressione. È la stessa sensazione che provai anni fa durante una passeggiata in una bella campagna, con bei alberi, e c’era pure un bel ruscello, il tutto molto poetico, avvolto nel silenzio del venticello; ma giunto al ruscello vidi che traboccava di schiuma di chissà quali prodotti inquinanti; significava che quella natura solo apparentemente, solo come lontano ricordo mi faceva toccare la sua bellezza immersa nel silenzio; in realtà essa gridava, urlava la propria sofferenza chiedendomi aiuto.
Salve a tutti. Siamo arrivati al post numero 69, che è dedicato a un’opera dell’artista Giuseppe Alletto, intitolata autoritratto a 25 anni, un quadro che ritrae un ragazzino che grida come un forsennato. Colgo l’occasione del commento a questo quadro, in realtà, per proseguire il discorso su cui si era incentrato il blog, specialmente negli ultimi post, cioè il discorso sulla soggettività. Specialmente nel post numero 59 mi ero concentrato su questo argomento e mi rendo conto che può essere opportuno aggiungere dei chiarimenti, delle specificazioni. D’altra parte, l’atteggiamento, possiamo dire, frustrato, del ragazzino disegnato da Giuseppe Alletto, potrebbe intendersi anche in questa maniera, cioè l’essere umano che è come frustrato perché non riesce a trovare una via di uscita dalle proprie gabbie. Praticamente è anche questo il ruolo dell’attenzione alla soggettività, cioè un tentativo di uscire dalle gabbie dell’oggettività a cui realtà ho fatto riferimento più o meno esplicito nel post numero 59. Ora, per avviare questo discorso, si potrebbe partire da una visione delle cose che in partenza è oggettiva, ma mira a orientarci sempre verso la soggettività, cioè: l’andamento dell’essere, dell’universo, del mondo, può anche essere interpretato come un procedere verso l’autocritica. Quindi il nostro universo sarebbe un universo che in continuazione fa autocritica e facendo autocritica dà luogo alla soggettività, o perlomeno l’attenzione verso la soggettività. In che senso, in che modo? Possiamo immaginare in questa maniera: immaginiamo l’universo con il suo Big Bang in partenza e, quindi, che sia il Big Bang o che si tratti di qualche altro evento, un universo che noi immaginiamo inizialmente, almeno con i nostri schemi occidentali, partente da qualcosa di statico, da un nocciolo concentrato, che, insomma, quale che sia l’evento, a un certo punto dà luogo al divenire, al crearsi del tempo e dello spazio. Ora, possiamo pensare che proprio il divenire dia luogo al relazionarsi perché “divenire” significa compiere qualcosa in relazione soprattutto al tempo e anche allo spazio. Quindi questo universo, immaginiamo come il Big Bang che esplode e quindi parte il tempo, parte lo spazio, parte il divenire. Partendo tutte queste cose, in realtà partono delle relazioni, parte un relazionarsi e quindi ogni atomo non è un qualcosa a sé, ma è relazione con gli altri atomi. Relazionarsi, in questo senso, può essere considerato come un interpretarsi reciprocamente, un rispecchiarsi reciprocamente che, di conseguenza, è anche un essere infedeli, perché, se un atomo rispecchia le interferenze dell’altro e quindi in qualche modo ne è immagine, tale immagine non sarà mai fedele al 100%, sarà sempre una deformazione, una distorsione, insomma siamo nella questione dell’interpretare. Quindi, da qui poi verrebbe il discorso della soggettività, il soggettivismo, l’interpretare soggettivo. Quindi significherebbe che questo orientamento alla soggettività si potrebbe anche guardare con uno spirito che potremmo dire hegeliano, cioè di sviluppo universale delle cose, come un andare normale dell’universo nel suo svilupparsi: lo svilupparsi normale dell’universo si può considerare come un procedere verso l’attenzione alla soggettività. Naturalmente tutto questo può ancora essere accusato di essere comunque una visione oggettiva, un mettersi davanti il processo dell’universo, ma toccheremo ora nel discorso anche questa questione. Teniamo presente adesso anche un altro aspetto del discorso, cioè dire: per quanto riguarda l’attenzione alla soggettività, si tratta di considerare l’esistenza umana sulla linea di Heidegger, ma io faccio riferimento in particolare a Vattimo, l’esistenza umana come permeata dalla debolezza, il nostro essere morenti, il nostro retrocedere dalla filosofia occidentale, dalle certezze. A proposito di questo, vorrei notare che questo retrocedere non è da intendere come un retrocedere che mira ad una meta. Cioè, quando io devo retrocedere da qualcosa, faccio marcia indietro perché a un certo punto mi dovrò fermare. Faccio marcia indietro per recuperare la mia posizione. In realtà, in questa visione non si tratta di una fare marcia indietro temporaneo, ma un fare marcia indietro continuativo, che è in realtà tutto un altro modo di esistere, un modo alternativo di esistere. È quindi un fare marcia indietro che è una missione, cioè un presentare al mondo un modo diverso di esistere, tutto improntato sul fare marcia indietro, senza fine, non per raggiungere un punto da cui poi finalmente tornare a camminare in avanti, ma proprio perché, perlomeno nella storia dello sviluppo della cultura, della filosofia che abbiamo vissuto, viene ad emergere questo: ci si era concentrati sull’oggettività, comprendiamo che invece il fare marcia indietro è qualcosa che vale, qualcosa di cui essere responsabili e quindi qualcosa da attivare, da valorizzare, coltivare come modalità esistenziale, quindi non come misura provvisoria. Questo potrebbe essere considerato anche come un cercare di guarire l’universo dal suo essere violento, per un’esistenza che cerchi di essere pace, ma non la pace dei morti, una pace che sia vitale. Naturalmente anche qui si può fare l’accusa che costituzionalmente noi potremmo essere fatti di istinto alla violenza, all’affermazione di sé, alla sopraffazione. Lo si fa come tentativo, non come principio di salvezza del mondo che ormai abbiamo capito. In questo senso, il procedere come tentativi e il procedere come retrocedere sono entrambi delle modalità esistenziali e non, come ho detto, delle misure provvisorie. Ora, tutto questo, affinché abbia coerenza e valore, deve fare attenzione a non cadere ugualmente nella tentazione dell’oggettività, perché in qualsiasi discorso che facciamo, incluso quello che sto facendo adesso, c’è sempre il rischio di trattare ogni cosa come un oggetto che io mi metto davanti, la sto presentando a voi, ne sto parlando, quindi come un oggetto. Quindi già questo sarebbe un tradimento totale del discorso che stiamo portando avanti. Quindi, parlare del tutto, sì, ma senza dimenticare che si tratta sempre di un’opinione, un nostro vedere soggettivo delle cose. Quindi, quando dico “l’universo si va sviluppando dal divenire fino ad arrivare all’attenzione alla soggettività”, ma sempre come mia opinione, che vale come discorso proprio perché lo vivo come mia opinione. Se lo vivessi come discorso oggettivo, già avremmo finito tutto, avremmo tradito il discorso stesso. Quindi una prospettiva alternativa che non cerca visioni oggettive, ma si presenta come opinione, e quindi anch’essa non come opinione provvisoria, ma come stile di vita basato sull’opinione, e quindi un universo alternativo che si muove non nelle immagini, negli schemi, nei sistemi, ma nell’universo dei valori. I valori non quelli che in realtà sono caduti (la “crisi dei valori”), ma valori diversi perché si basano sull’autocritica, sulla critica di sé stessi, quindi non valori che si presumono oggettivi, ma valori che valorizzano proprio l’opinione, il divenire, il retrocedere, l’imperfezione, tutto ciò che fa parte di questo stile di pensiero. È quindi un procedere che, più che creare schemi di riferimento, crea esperienza, raccoglimento, spiritualità. In questo senso, a volte c’è in noi questo cercare forsennato, cerchiamo i marziani, cerchiamo altra vita, cerchiamo altri universi, ma in tutto questo, in realtà, possiamo osservare che stiamo continuando a mantenerci dentro la nostra gabbia, proprio nel cercare i marziani, perché non ci accorgiamo che stiamo continuando a cercare con un sistema di pensiero che continua a muoversi nell’oggettività. Cerchiamo i marziani come oggetti, mentre la vera alternativa diventa il muoversi nell’essere opinione, nell’essere soggettività. Questo sembra essere quindi ciò che sembra vera alternativa e non alternativa apparente. Su questo, come ho lasciato intendere altre volte, ci viene aiuto anche l’artista, l’arte. L’artista si presenta noi come colui che ci presenta la sua opinione, la sua immagine, non la visione oggettiva delle cose. Ma anche qui ci può essere la tentazione di cadere nell’oggettivo. Cioè, non mi rivolgerò adesso all’arte con l’idea che l’arte adesso oggettivamente mi condurrà verso la soggettività. Non lo farà. Ciò che funziona come punto di riferimento che è l’arte non è il suo essere oggettivo, ma la sua struttura, cioè il suo presentarsi come opinione. Se, al contrario, io prendo l’opera artistica, me la metto davanti con l’idea che adesso quell’opera dovrà guidarmi alla soggettività, è facile che mi accorga che sono caduto di nuovo nel solito errore di oggettivizzare. Quindi non è l’opera a guidarmi verso la soggettività, ma tutto un muovermi continuo nel cercare strutture di esistenza diverse, movimenti diversi. Come abbiamo detto, il valorizzare l’opinione, valorizzare il retrocedere, tutti concetti che cercano di rinviare a un tentativo di diversità, di uscire dalla gabbia dell’oggettività. Un’altra annotazione a questo proposito può riguardare l’immagine che ci facciamo di noi stessi. Cioè dire, è anche questa una tentazione, come dire, metafisica, oggettivistica. Piace a noi desiderare di situarci finalmente in un’immagine stabile: “ecco, io sono così, quello il mio look, quello è il mio essere”. Anche questo può essere una caduta nell’oggettività. Per cercare di non cadere in questo, quindi, si tratterebbe di fare attenzione a diffidare sempre della nostra autocomprensione che possa peccare di staticità. Quindi cercare non la nostra immagine ideale, ma cercare piuttosto, tutt’al più, delle soste temporanee, un camminare che sia umano, ma non un’immagine in cui trovare conforto e dire “ah, ecco, finalmente ho trovato la casa”. Trovare tutt’al più la tenda. La tenda perché la tenda presuppone il camminare, un sostare soltanto temporaneo. Concludo tutto questo discorso con un’osservazione che dovrebbe aiutare il tutto, cioè dire: quando si parla di tutte queste cose ci si può accorgere che alla fine non si riesce a uscire dal concludere. Cioè, qualunque cosa io dica, verrà ad apparire come una conclusione e quindi di nuovo come una oggettività, come una pretesa di certezza. Anche quando dirò che è un problema di linguaggio, anche quello può apparire di nuovo una conclusione. Come, perlomeno, tentare di uscire da questa difficoltà. Credo che si possa uscire impostando, proponendo il discorso, sia ad altri sia a noi stessi, non come definizione, ma come narrazione. Cioè, tutto quanto io ho detto adesso in questo video, in questo discorso, è meglio che si consideri come un racconto. Cos’ha da guadagnarci questo? Perché, se io lo presento come un racconto, significa che non sto presentando un quadro definito, delle definizioni, ma sto presentando un andamento di cui fa parte il presente stesso, di cui fa parte il raccontare stesso che io sto raccontando. Non è questione adesso di creare delle matriosche, dei contenitori che non finiscono mai, ma soprattutto questo, cioè, nel momento in cui io dico che sto raccontando qualcosa in cui mi trovo dentro, significa che, quando finirò questo discorso, il racconto non finisce perché continuerà con il mio esistere, con il mio continuare a relazionarmi. Sì, si finirà il video, finirà il mio parlare, ma non finirà il mio relazionarmi. Continueremo noi ad essere nelle relazioni in cui ci fa esistere l’universo. In questo senso si potrebbe dire che questo narrare non finirà neanche con la morte perché la morte, in questo senso, viene ad essere soltanto un ulteriore modificarsi, svilupparsi, delle relazioni. Si finisce un discorso, ma si finisce un discorso per dar luogo a un modo diverso di narrare, non più fatto di parole, ma fatto di altro, fatto di modi diversi di esistere. Dopo questo video io esisterò in un altro modo senza il parlare in questo video; dopo il mio morire, continuerò ad esistere in un altro modo, senza il vivere fatto di carne ed ossa, ma sarà un continuare a portare avanti un discorso con linguaggi diversi. Questo può servire a non cadere nel problema del concludere, “ho detto l’ultima parola ed ho concluso”; come faccio uscire? Esco dicendo “sto raccontando, il racconto continuerà nel linguaggio diverso dal parlare di ora”. Arrivederci a tutti, con l’augurio di una scoperta sempre più entusiasta della nostra soggettività dell’universo che è tutto da scoprire in essa e arrivederci ai prossimi passi del cammino.
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